mercoledì 7 settembre 2016
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C’è una sola cosa che guida 63mila adolescenti in questi giorni a tentare l’ingresso alle facoltà di Medicina, cui accederanno solo 10mila di loro; c’è una sola cosa che li spinge a studiare per mesi preparandosi a questo strano e contestato esame d’ingresso, ad affrontare almeno 6 anni di sacrifici e fatiche senza nemmeno la certezza di arrivare in fondo (si laureano solo 7 su 10) e di trovare una carriera in una specializzazione (percorso nel quale un laureato su 7 non entrerà, almeno al primo tentativo), iniziando dunque una carriera che potrebbe finire prematuramente, o non trovare a lungo sbocchi lavorativi, come da recenti dati dell’Ordine dei medici. A farli tentare, quest’anno ancora in numero superiore rispetto al precedente, è una promessa.

Non una semplice speranza, ma una promessa che hanno assorbito da qualche figura di medico conosciuto, dalla visione di un mondo che diventa sempre più arido, ma che proprio per questo rivela in contrasto zolle di vita in grado di illuminare chi inizia il cammino adulto. Una promessa è più di una speranza. E la promessa non è di uno stipendio o di un lavoro speciali, ma è di una professione che ha una duplice, peculiare caratteristica: poter vedere il frutto delle proprie mani e poter avere la certezza di essere stati utili a qualcuno.

Non è roba da poco, in un mondo alienato, dove si lavora a catena e ognuno fa un pezzetto del lavoro che qualcun altro chissà dove assemblerà, e un altro ancora venderà. Fare il medico non è un lavoro per persone "buone", ma è un "buon lavoro" per la persona, nel senso in cui ognuno vorrebbe vedere il proprio lavoro: cioè non come una sovrastruttura, un modo per creare beni posizionali, cioè futilità solo per contribuire al meccanismo di un mondo che vive per vendere e comprare cose e servizi di cui, in realtà, non sa che farsene.

Ma questa promessa trova non pochi ostacoli: un lavoro utile rischia di disperdersi nei meandri della burocrazia, degli ospedali diventati aziende in cui i pazienti sono utenti o clienti e i medici sono "fornitori di un servizio", di luoghi di cura in cui si moltiplicano regole e protocolli (si pensi al lievitare del Codice di deontologia medica), in cui avvengono fenomeni di burnout (un forte stress lavorativo) e dove accade che la gente si guardi a vicenda con diffidenza. Tutte realtà cui non si può far fronte con ulteriori protocolli o corsi di etica.

Nemmeno vi si può porre riparo con il moltiplicarsi di premi o incentivi, perché – spiega lo psicologo Barry Schwartz, autore del libro Why we work (Perché lavoriamo) – aggiungere una motivazione (l’incentivo) a un’altra motivazione (il senso etico, l’altruismo, il gusto del lavoro) non raddoppia l’effetto positivo ma semplicemente svaluta quella spinta morale, facendola avvertire come un’opzione e non come un valore. La promessa che porta 63mila giovani a sedersi sui banchi e tentare di accedere a un futuro arduo non diventerà una bugia se si può mostrare una via percorribile, invogliando i virtuosismi personali e le virtù di ciascuno.

«Se vuoi costruire una barca – scrisse Saint-Exupery – non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Questo e solo questo è il compito – duro e faticoso – dei docenti (dei maestri, ci piacerebbe dire) che accoglieranno i 10mila capaci di superare l’esame. Vedremo i frutti.

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