giovedì 15 marzo 2012
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Il paradosso è che, al tirar delle somme, si scopre che per gli istituti di sostegno a chi è senza lavoro l’Italia è uno dei Paesi che spende di meno in Europa (con l’eccezione della Gran Bretagna). L’ormai famosa «paccata» di miliardi citata dal ministro Fornero, serve insomma, ma si tratta anche di vedere come questi soldi sono spesi. Lo testimoniano diverse ricerche condotte sul campo, basate su dati 2009/10 (come raffronto fra gli stati) e univoche nelle conclusioni: in rapporto al Prodotto interno lordo, la spesa annua per aiutare chi cerca un’occupazione, fra ammortizzatori sociali e le cosiddette "misure attive" (corsi di riqualificazione e orientamento), si colloca in Italia circa all’1,7% (lo 0,2-0,3% in meno della media europea), pari a una cifra di oltre 28,4 miliardi di euro e a una media di 13.500 euro annui per ogni disoccupato.Lo stesso Carlo Dell’Aringa, uno dei maggiori studiosi di politiche per il lavoro (nonché "quasi-ministro" nel governo Monti), ricordava tempo fa che, per il sostegno ai disoccupati, «per stare in media europea dovremmo spendere circa 7 o 8 miliardi in più». Il "guaio" è essersi ritrovati a fare la riforma degli ammortizzatori - tema di cui in Italia si dibatte almeno dalla fine degli anni Novanta (ricordiamo la "commissione Onofri" che fu insediata dal primo governo Prodi) - in questi tempi che vedono una penuria di risorse, sia pubbliche sia private. Tutti i principali stati del continente destinano nel complesso alla voce "lavoro" del loro bilancio ben più di noi: Germania, Francia, Spagna, Belgio, per non dire dei Paesi del Nord Europa, spesso additati per il loro modello di <+corsivo>flex-security<+tondo> forse difficilmente replicabile da noi. Sono tendenze confermate, solo per citare gli ultimi rapporti, anche da un’indagine del Ceps (il Centre for european policy studies di Bruxelles diretto da Daniel Gros) e da un’elaborazione del centro studi di Datagiovani, su dati dell’Eurostat.Il problema, semmai, è che da noi c’è stato storicamente uno sbilanciamento verso strumenti "passivi" di sussidio al reddito (come la cassa integrazione), anziché verso quei canali che richiedono una partecipazione attiva del lavoratore. Non occorre citare il caso estremo della Danimarca, dove si impiega il 3,37% del Pil per una media di oltre 36mila euro a disoccupato (ma solo il 47% per sussidi). In Germania, dove non esiste un istituto simile alla cassa integrazione italiana (ma dove, a esempio, chi è in cerca di occupazione deve dare prove di disponibilità nel caso in cui venga proposto un impiego), si spende parecchio più che in Italia: oltre 56 miliardi all’anno, pari al 2,26% del Pil e a una media di 19.187 euro a testa. Ma pure, per citare una realtà più simile alla nostra, in Spagna (dove per accedere all’indennità di disoccupazione occorre dimostrare di aver lavorato 3 anni negli ultimi 6) i valori sono sensibilmente superiori: si spendono 41 miliardi e ben il 3,90% del Pil anche se - data la forte crescita dei disoccupati negli ultimi anni - la spesa pro-capite si è ridotta rispetto alla nostra, a quota 8.850 euro. A Madrid i soli sussidi coprono l’80% della spesa totale, più o meno come in Italia. Da noi, per i soli ammortizzatori sociali lo Stato ha dovuto tirar fuori quasi 30 miliardi dal 2008 a oggi per coprire la differenza rispetto alle specifiche entrate assicurate dai contributi di aziende e lavoratori. La conseguenza è che ai servizi per l’impiego restano briciole: noi non destiniamo più del 21% della spesa totale, a fronte dell’incredibile 71% della Svezia "primatista", ma pure del 44% francese o del 33% del Portogallo. I nostri centri per l’impiego sono finanziati con 447 milioni, una miseria rispetto ai quasi 6 miliardi della Francia e ai 9 dei tedeschi.Insomma, per raggiungere i livelli di spesa (in percentuale del Pil) dei paesi europei che spendono di più, dovremmo aumentare le nostre uscite di circa 20 miliardi. Cifre da "capogiro", impensabili per un Paese come il nostro, coi problemi che si ritrova sul fronte dei conti pubblici. Un diverso volume di spesa dovrebbe predisporre però anche un radicale ridisegno delle misure di politica attiva per il lavoro. Da noi un passo è stato compiuto con l’intesa Stato-Regioni del febbraio 2009, finalizzata all’utilizzo di risorse "alternative" messe a disposizione dalla Ue. Da quel giorno a oggi, stando ai dati di Italia Lavoro, sono state prese in carico dai servizi per l’impiego poco più di 350mila persone, di cui circa la metà è stata inserita in un percorso di formazione (il 51% dei lavoratori in Cigs in deroga, che erano attivi cioè nei settori abitualmente non "coperti" dalla cassa, e il 24% di quelli in mobilità e in deroga). Al termine del percorso, sono state 138mila le persone reintegrate nell’azienda di provenienza; in 28mila casi c’è stata una ricollocazione e altre 26mila persone sono state "accompagnate" alla pensione o hanno avviato un’attività in proprio.
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