mercoledì 25 aprile 2012
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​La crisi non ha colpito duro i lavoratori "anziani". Anzi. L’Europa sta raggiungendo l’obiettivo politico del decennio: innalzare il tasso di l’occupazione della fascia 55-64 anni e oltre.La crisi "come opportunità" dunque sarà un’occasione unica per dare una cornice europea a quelle riforme che molti Stati membri hanno attuato, prima ancora che il rischio default ponesse i governi di fronte a un percorso che la questione demografica aveva giocoforza già reso obbligato: lavorare più a lungo per soddisfare la domanda di manodopera e ridurre la pressione sui sistemi pensionistici e di previdenza sociale. Nel 2040, infatti, le persone di età superiore ai 65 anni nell’Ue a 27 rappresenteranno più del 45% della popolazione in età lavorativa (15-64 anni). Nel 2011, infatti, in Paesi come Austria, Belgio, Olanda, Svezia e Ungheria, il tasso di occupazione nella fascia di età compresa tra i 60 e i 64 anni è aumentato rispetto al 2008, pur con tutte le significative differenze che vedono, per esempio in Svezia il livello d’occupazione dei senior superare la soglia del 60%, laddove in Belgio e Ungheria è sotto il 20. Anche in Italia dal 2004 al 2011 il tasso di occupazione degli over-55 è cresciuto dal 30 fino quasi al 40% e nell’ultimo anno, mentre il numero di occupati scendeva, i lavoratori senior sono aumentati di 164mila unità.Prima della crisi, rileva un’indagine di Eurofound, Spagna, Regno Unito, Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Lettonia, Olanda, Svezia e Ungheria, hanno utilizzato (e continuano a utilizzare) politiche di mantenimento dei lavoratori più anziani nei loro posti di lavoro: strumenti indiretti, con obiettivi più ampi del semplice sostegno (riforme del sistema previdenziale con modifiche delle prestazioni erogate ai pensionati e dei contributi versati sia dai dipendenti che dai datori, innalzamento dell’età, riduzione degli incentivi al prepensionamento, riforma delle prestazioni d’invalidità e malattia, incentivi all’apprendimento permanente e allo sviluppo delle competenze nel luogo di lavoro), e misure più specifiche, mirate direttamente alle gestione dell’età (incentivi finanziari ai datori per mantenere al lavoro gli over 60 o favorirne il reinserimento, incentivi finanziari ai dipendenti che ritardano il pensionamento, piani di pensionamento graduale o parziale, lavoro flessibile per i lavoratori anziani, premi alle aziende assegnati dai governi per le migliori prassi di gestione dell’età). La Commissione europea ha ribadito ai 27 la necessità economica di «mantenere gli anziani sani e attivi il più a lungo possibile». Con il Libro Bianco sulle pensioni, la Commissione ha avanzato proposte inequivocabili: creare migliori opportunità per i lavoratori anziani, sollecitando le parti sociali ad adattare il posto di lavoro e le prassi sul mercato del lavoro, facendo ricorso al Fondo sociale europeo per il reinserire professionale dei lavoratori anziani; incoraggiare le parti sociali a sviluppare sistemi pensionistici privati complementari e gli Stati membri a ottimizzare gli incentivi fiscali e di altro genere; potenziare la sicurezza dei sistemi pensionistici integrativi, con una revisione della direttiva sugli enti pensionistici aziendali o professionali e una migliore informazione dei consumatori; rendere le pensioni integrative compatibili con la mobilità, varando leggi a tutela dei diritti pensionistici dei lavoratori "mobili" e promuovendo l’istituzione di servizi di ricostruzione delle pensioni in tutta l’Ue; incoraggiare gli Stati membri a promuovere vite lavorative più lunghe, correlando l’età della pensione con la speranza di vita, limitando l’accesso al pre-pensionamento ed eliminando il divario pensionistico tra gli uomini e le donne.Si tratta dunque di creare un migliore equilibrio tra vita lavorativa e quiescenza, determinando tutte quelle condizioni che permettano, a chi è in grado, di continuare a lavorare; assicurare che chi si trasferisce in un altro Paese possa mantenere il suo diritto alla pensione, «aiutare le persone a risparmiare di più e garantire che le prospettive di pensione siano mantenute». I pensionati, rileva Bruxelles, costituiscono una quota significativa e in rapida crescita della popolazione europea: 120 milioni, pari al 24 per cento. Se nel 2008 c’erano quattro persone in età lavorativa (15-64 anni) per ogni cittadino comunitario over 60, entro il 2060 il rapporto scenderà a due a uno. Le pensioni, ricorda la Commissione, rappresentano una spesa media del 10% del Pil (con variazioni che vanno dal 6% in Irlanda al 15 in Italia), che nel 2060 potrebbe salire al 12,5. L’Ue non può raccomandare direttamente agli Stati un aumento dell’età pensionabile, ma propone delle misure per aiutare i 27 (nel 2011 sono stati 16 gli Stati membri a ricevere una raccomandazione specifica sulle pensioni e altri cinque - Portogallo, Romania, Lettonia, Irlanda e Grecia - si sono impegnati a procedere a una riforma del settore) a scoraggiare il prepensionamento, allineare l’età pensionabile delle donne a quelle degli uomini, coinvolgere le parti sociali nella revisione dell’età obbligatoria per la pensione. In Italia, ricorda la Commissione, le tre riforme del 2011 hanno alzato l’età pensionabile, rallentando di molto le uscite dei lavoratori più anziani: l’età di pensionamento legata alla speranza di vita, si legge nel Libro Bianco, sarà per uomini e donne di 70 anni e 3 mesi nel 2060.Si arriva però alla domanda delle domande: allungare la vita professionale degli over 60 significa togliere il lavoro ai giovani? I mercati del lavoro, sostiene l’Ue, «non sono un gioco a somma zero», in cui è fissato il numero di posti e dove un nuova occupazione «diventa disponibile solo quando qualcun’altro si ritira». Bruxelles ricorda, infatti, che quei Paesi «con tassi di occupazione più elevati tra gli anziani, hanno anche alti tassi di occupazione tra i lavoratori più giovani»; al contrario, i «Paesi di occupazione relativamente bassa tra gli anziani tendono a prestazioni peggiori nella creazione di opportunità occupazionali per i giovani». La disoccupazione giovanile, dunque, spiega la Commissione, non è colpa delle politiche di gestione dell’età, ma «una conseguenza della generale recessione economica» e, sul piano più strutturale, delle «carenze dei sistemi educativi e delle istituzioni del mercato del lavoro».
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