
«Negli ultimi 25-30 anni ci sono stati enormi progressi nella riduzione della povertà estrema, siamo passati dal 30% a meno del 10% di persone nel mondo che sperimentano questa condizione, anche se ciò è avvenuto in maniera difforme. Ora dobbiamo restare ambiziosi nei nostri obiettivi di sviluppo sia sulla riduzione della povertà che sull’adattamento al cambiamento climatico e su altre sfide, pur nella consapevolezza che oggi ci sono molti “bisogni in conflitto” e questo si riflette sull’assistenza ai Paesi vulnerabili». Oltre che numero due di Banca Mondiale, nella sua veste di direttore generale dell’organismo che attraverso l’istituto Ida sostiene 75 Paesi fragili, Axel van Trotsenburg è tra i più esperti osservatori nel campo dello sviluppo. Consapevole della centralità dell’appuntamento Onu di Siviglia, per molti una sorta di ultima chiamata per la realizzazione di Agenda 2030, van Trotsenburg sottolinea l’importanza del lavoro complementare tra settore pubblico e privato e la necessità di una maggiore attenzione alla trasparenza del debito delle economie fragili.

Cosa si aspetta Banca mondiale da Siviglia?
È innegabile che servano finanziamenti per lo sviluppo, e non si tratta solo di debito, ma di finanziamenti nel senso più ampio del termine. Per molti Paesi ciò significa anche mobilitare maggiori risorse interne, che siano private o pubbliche, anche attraverso la tassazione. In alcuni Stati il gettito fiscale è inferiore al 10% del Pil, il che rende molto difficile fornire servizi di base. I Paesi che hanno avuto successo, come quelli del sudest asiatico, hanno affrontato questo aspetto. Poi c’è il capitale privato, che può arrivare in varie forme, oltre al ruolo delle banche di sviluppo multilaterali.
Come evitare l’accumulo di debito insostenibile nei Paesi fragili?
Servono soprattutto processi di controllo grazie ai quali i Parlamenti, il settore privato, i media e la società civile possano seguire la situazione debitoria. È importante che ci siamo dibattiti informati sui progetti per i quali serve finanziarsi, e anche discussioni su come questi debiti vadano di pari passo con la situazione macroeconomica e quali siano i loro termini. Solo così ci si può rendere conto se si è davanti a un buon investimento o se ci siano alternative migliori. Occorre trasparenza, perché una decisione sbagliata può costare molto a una popolazione. Abbiamo profuso molti sforzi per cancellare i debiti ai Paesi poveri con l’iniziativa Hipc, ma poi molti Stati si sono nuovamente indebitati in maniera significativa: a volte questo capita anche per assenza di informazioni. In Africa mancano informazioni su quantità incredibili di denaro, fino al 25% del Pil.
Ci sono anche esempi positivi?
Molti Stati si trovano in una situazione critica, non essendo stati in grado di bilanciare il bisogno di investimenti infrastrutturali con l’accumulazione di debito. Un Paese che ha gestito in maniera attenta il suo passivo è il Vietnam, che è stato giudizioso nel contrattare i suoi prestiti, sia con istituzioni multilaterali che bilaterali.
Come giudica la riduzione decisa da Trump rispetto agli aiuti americani di assistenza allo sviluppo (Usaid)?
Ciò che sta accadendo con Usaid è parte di un processo più ampio e non riguarda solo gli Usa: l’assistenza allo sviluppo è stata ridotta in molti Paesi Ocse, anche in Europa e questa è una sfida. Questo processo ha a che fare con l’emergere di altre priorità, come l’incremento delle spese militari, il finanziamento all’Ucraina, il sostegno ai rifugiati: insomma ci sono molti bisogni che competono l’un l’altro e questo si riflette sull’assistenza ai Paesi poveri. Noi continuiamo a prendere le loro parti, ma tutti gli Stati fanno fatica, Italia compresa, e le opinioni pubbliche guardano sempre più spesso a casa propria. Non siamo più negli anni ‘50 dove tutti crescevano: questo crea pressioni. Banca Mondiale continua a lavorare a livelli record in termini di coinvolgimento e impegno grazie al fatto che siamo riusciti a riformare i nostri finanziamenti, abbiamo ottimizzato il bilancio e ci siamo assicurati impegni finanziari pari a quasi 100 miliardi di dollari a favore dei Paesi vulnerabili da parte dei Paesi donatori lo scorso dicembre.
Il vostro Program for results è considerato uno strumento di finanziamento modello..
I Paesi donatori sono sempre stati interessati a conoscere i risultati dell’allocazione delle risorse. Questo programma si è rivelato efficace: i pagamenti sono legati al raggiungimento di risultati verificabili e tangibili di un programma governativo. E’ un buon complemento ai nostri strumenti, la filosofia che c’è dietro è importante.
Ha parlato di capitale privato, come mobilitarlo nei Paesi fragili?
Per i Paesi poveri, dove è difficile investire perché i rischi sono maggiori, abbiamo creato una finestra per il settore privato per catalizzare questo tipo di investimenti con un elemento di mitigazione del rischio. Nel nostro dialogo con operatori privati e con i Paesi, settori pubblico e privato lavorano in maniera complementare.
Il documento approvato a Siviglia è un buon compromesso, considerando anche che mancano solo 5 anni al 2030 e che gli Usa stanno disertando l’appuntamento?
Sono gli Stati a dover valutare questo testo. Quello che conta per me è far sì che Banca Mondiale realizzi quanto ha promesso, lottando al fianco degli Stati fragili e ottenendo il massimo finanziamento dal pubblico e dal privato. Vogliamo restare ambiziosi sull’agenda dello sviluppo e convincere la comunità internazionale a fare lo stesso. Abbiamo l’obbligo di fare il massimo possibile e siamo felici di essere coinvolti con chiunque voglia impegnarsi con noi. Nonostante la loro assenza qui, gli Usa sono il principale donatore di Ida e abbiamo lavorato bene con loro. Continueremo a lottare duramente per chi ha bisogno del nostro sostegno.