giovedì 29 settembre 2016
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Non se ne parla e non se ne deve parlare, perché i margini sono strettissimi e un colpo sparato a salve sarebbe pericolosissimo anche ai fini del referendum. Ma Renzi non ha perso le speranze. E i suoi più stretti collaboratori fanno pressione: bisogna provare il possibile e l’impossibile per anticipare almeno in parte il taglio delle tasse in buste paga al 2017. Le ipotesi in campo sono due: la riduzione dell’aliquota Irpef sul ceto medio e la 'fiscalizzazione' degli oneri sociali, ovvero il taglio di parte dei contributi previdenziali che pesano sulla busta paga, con lo Stato che se ne fa carico al posto di aziende e lavoratori. In entrambi i casi, una mossa per ridurre il costo del lavoro e portarlo su livelli 'europei'. Negli ultimi giorni la seconda opzione ha scalato qualche posizione proprio perché meglio si presta a un intervento in due tappe. Una prima riduzione nel 2017, l’entrata a regime nel 2018. Tutto già scritto nella manovra di quest’anno, però, per dare un segnale di fiducia.

Ci sono varie ipotesi che variano dai 4 ai 6 miliardi a regime, con uno sconto di 2-3 punti sui contributi previdenziali sia lato-impresa sia lato-lavoratore. Come più volte affermato dal viceministro al Tesoro Enrico Morando e dal sottosegretario a Palazzo Chigi Tommaso Nannicini, la misura andrebbe applicata ai contratti a tempo indeterminato e potrebbe essere più efficace degli sgravi alle assunzioni, che hanno ormai perso il loro effetto-traino sull’occupazione. Se non altro sarebbe una misura strutturale. Il nodo, è chiaro, sono le risorse. La manovra è già abbastanza piena di misure annunciate: il pacchetto- pensioni e il rinnovo del contratto agli statali, l’ecobonus e il superammortamento alle imprese, la conferma della riduzione Ires, l’abrogazione dell’aumento Iva.

Considerando che il deficit 2017 è fissato al 2%, e che dall’Europa ci si aspetta solo uno 0,4 aggiuntivo finalizzato a sostenere le spese per migranti e terremoto, davvero restano spiccioli. Si potrebbe forzare la mano sulla spending, ma sono note le ritrosie del premier. Si potrebbero ridestinare parte delle risorse finalizzate agli incentivi alle assunzioni. Si potrebbe, in extremis, in un clima di rottura con l’Europa, andare oltre i margini concessi.

Troppi condizionali, al momento. Ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha lanciato un segnale, giudicando «realistico» un taglio del cuneo fiscale nel 2017 sul 2018, ovvero una misura scritta in questa manovra ma attiva dall’anno successivo. Ma è un’impostazione 'prudente' che potrebbe cambiare nelle prossime settimane, a ridosso della consegna della legge di stabilità alla Camera e alla luce degli umori sul referendum.  

 Se per ora prevale la linea di «Pierprudenza Padoan» - come l’ha scherzosamente definito Renzi l’altra notte durante la presentazione della Nota di aggiornamento del Def -, è altrettanto vero che il premier sul referendum si gioca qualcosa che va oltre gli 'zero virgola' concordati con Bruxelles.

Quanto detto da De Benedetti ieri nell’intervista al Corriere e la nota di Berlusconi, Salvini e Meloni non sono così lontane da quanto Renzi pensa sul post-referendum: se vince il «No», la sua figura ne uscirebbe fortemente appannata e andare avanti col governo sarebbe molto difficile. Perciò serve un colpo di coda. L’intervento last minute sul costo del lavoro e sulle buste paga fa il paio con i messaggi che Renzi intende dare nell’ultima fase della campagna referendaria: chi vuole il «No» - ragiona in queste ore il premier - vuole semplicemente il ritorno del proporzionale, vuole contare e porre veti anche se perde. Il Pd, è la previsione di Palazzo Chigi, tornerebbe sul 25 per cento e fare un governo sarebbe pressoché impossibile: solo Berlusconi sarebbe disponibile, e non è detto che sarebbe sufficiente.

Lo 'scenario spagnolo' è lo spettro che si vuole mettere dinanzi agli occhi del Paese. Insieme a qualche soldino e subito in busta paga, senza rinvii a un 2018 che ora appare lontanissimo. La nota di aggiornamento del Mef dettaglia il quadro di una ripresa che, anche nelle previsioni del governo, stenta a decollare. Dalle privatizzazioni si attende quest’anno solo lo 0,1% del pil, che diverrà 0,5 il prossimo anno.

E il nuovo obiettivo di indebitamento «richiede una manovra per il 2017 pari allo 0,5% del Pil» da dettagliare già nella legge di bilancio. Ma l’ufficio parlamentare di bilancio, nel dare il via libera al quadro macroeconomico per il biennio in corso, avverte: «Ci sono fattori di rischio negativo che pesano sul biennio successivo 2018-2019».

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