mercoledì 7 maggio 2014
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La miglior difesa è l’attacco. Se c’è un aspetto che, almeno in via preliminare, i rappresentanti dei lavoratori in trasferta ad Auburn Hills hanno apprezzato, in attesa di conoscere i dettagli definitivi del piano Fca, è il cambio di marcia dichiarato da Sergio Marchionne. In mezzo agli interrogativi senza risposta, il primo dei quali riguarda i finanziamenti necessari per sostenere la nuova strategia di sviluppo internazionale, un punto fisso c’è. «Dopo la stagione degli accordi in chiave "difensiva", si chiude il cerchio» osserva da Detroit Ferdinando Uliano, segretario nazionale della Fim Cisl. Che snocciola numeri in quantità industriale: 10 miliardi di investimenti sull’Italia, un terzo del totale, 5 dei quali sul progetto Alfa (a cui stanno lavorando 200 ingegneri italiani) 2 miliardi su Mirafiori e Grugliasco, 1 su Cassino. Risorse già messe (3 miliardi nel 2013) e da mettere (da qui al 2018) sono il segnale, secondo la maggior parte delle organizzazioni confederali, che l’Italia resta strategica. «È difficile adesso pensare a un rilancio che non faccia perno sul nostro Paese» concorda lo storico dell’industria, Giuseppe Berta, che dietro alle cifre vede stagliarsi il profilo di un nuovo, possibile alleato (dopo Chrysler) «indispensabile per raggiungere quota 7 milioni di auto». Dal governo intanto si leva la voce del ministro Giuliano Poletti. «Quando un’impresa decide e propone di fare investimenti e lavorare in Italia, è un segnale positivo».Fabbrica Italia alle spalleIl fantasma che ha aleggiato al Lingotto in lungo e in largo, in questi mesi, è stato quello di una riedizione del piano Fabbrica Italia, annunciato da Marchionne prima della crisi e poi ritirato. Auburn Hills sembra essere un’altra cosa, lo si guardi da Torino o da Pechino, dal mantenimento dei livelli occupazionali negli stabilimenti del nostro Paese, dove 19mila lavoratori sono in cassa integrazione a zero ore, o dal futuristico mercato a quattro ruote cui Fca destinerà la nuova Jeep per provare a sfondare in Asia. «Ci sono i presupposti per far uscire Mirafiori da una situazione di forte sofferenza che i lavoratori hanno subito in questi anni» osserva il sindacalista della Cisl. «Siamo in attesa di capire quali modelli Alfa andremo a produrre, ma in ogni caso per il nostro territorio sarà una grande scommessa. Oggi lavoriamo otto giorni al mese, da fine 2015 ripartiranno le linee di produzione e si tornerà lentamente a regime. È quel che aspettavamo» racconta da Cassino, Mirko Marsella, segretario provinciale della Fim.In generale, il piano di Detroit segna per Fiat l’addio al cosiddetto "mercato di massa", a favore dell’alto di gamma. «È un’indicazione importante per tutto il nostro sistema industriale – continua Berta –. L’Italia resta un Paese dove si produce e ancora non si vende, purtroppo. È l’export a trainare il made in Italy». La scommessa sui motori coinvolgerà tutto il gruppo, che negli stabilimenti italiani già realizza modelli per la Chrysler e che in Piemonte ha vinto in modo inaspettato la partita su Maserati. «L’azienda è pronta – assicura lo storico torinese – perché la cultura motoristica in Italia c’è da sempre. Ora bisognerà riallacciarsi proprio alla tradizione dei motori Maserati e Ferrari, anche se la ricerca di visibilità e di maggiore autonomia per i singoli brand può essere rischiosa, oltre a penalizzare in definitiva proprio il marchio Fiat».Il fattore Wall StreetSul piano finanziario, sarà soprattutto il giudizio degli investitori americani a pesare sul new deal di Marchionne. «Su debito e nuovi investimenti non sono arrivate grandi indicazioni» spiegava ieri un trader interpellato da Reuters. Il Lingotto punta sulla quotazione di Fca a Wall Street, ma non è detto che basti o che funzioni. «Eppure le condizioni finanziarie ci sono, oggi più di ieri» afferma Uliano. Senza dubbio, la vetrina offerta dagli Stati Uniti rimane unica, per un gruppo che è settimo al mondo e che, per poter competere, deve continuare a crescere. «L’asticella si è alzata di molto con la presentazione dei nuovi obiettivi – riflette Berta – e ho la sensazione che i nuovi traguardi potranno essere raggiunti non in virtù di una crescita interna, ma di nuove alleanze». La strada che guarda all’Europa porta a Peugeot, quella rivolta all’Asia ha il nome di Suzuki. Soltanto ipotesi suggestive, per ora, mentre il Piemonte, terra d’elezione per gli eredi della famiglia Agnelli, ha da tempo imparato a camminare con le proprie gambe, aprendo le porte ad altri colossi dell’auto, come Volkswagen e General Motors. Sarà un futuro nuovo, che dal punto di vista occupazionale prima si tradurrà in un lento recupero dei dipendenti finiti nelle sabbie mobili della cassa integrazione, e successivamente potrebbe portare a un ritorno ai livelli pre-crisi, non prima però del 2018. Nel frattempo, spiegava Sergio Chiamparino, l’effetto Auburn Hills sarà innanzitutto l’inversione dello schema di gioco: non più in difesa, appunto, ma all’attacco. «La globalizzazione della Fiat? Ora presuppone la globalizzazione di Torino...».
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