mercoledì 14 luglio 2010
L’Olanda detiene il record di minor disoccupazione in Europa. Nonostante la crisi non è andata oltre il 4,3% meno della metà della media Ue. Alla base del successo le riforme dei decenni scorsi, l’ampio utilizzo del lavoro in affitto e del part-time.
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Forse non è più l’Olanda felix della seconda metà degli anni Novanta, quella che cresceva di oltre il 3% e vedeva diradarsi sempre più velocemente il numero dei senza lavoro. Eppure quel "modello polder" consistente nel rafforzamento della struttura economica tramite il riassetto delle finanze pubbliche e nello sviluppo moderato del costo salariale sta dimostrando di poter reggere all’urto pure in questi tempi di crisi. Merito anche di politiche che da anni riescono a coniugare al meglio flessibilità e sicurezza sociale. Pilastri di una struttura occupazionale che garantisce elasticità sia alle imprese che ai lavoratori. Protetti, in caso di perdita del lavoro, da una serie di tutele e aiuti nella ricerca di una nuova attività. Certo, sono tempi difficili anche qui, nei Paesi Bassi. Lo dimostra un deficit oggi stimato al 6,6% del Pil nel 2010 e la necessità di tagliare la spesa pubblica fino a 29 miliardi di euro entro il 2015. Eppure la disoccupazione, negli anni scorsi ad un livello fisiologico del 3%, non si è spinta oltre il 5%. Di più: già si vedono segnali di ripresa: tra marzo e maggio il numero dei disoccupati è diminuito di 7mila unità ed è sceso del 30% il tasso di coloro che hanno chiesto il sussidio di disoccupazione. Oggi così la percentuale di senza lavoro si è attestata a un invidiabile 4,3% contro l’8,7% in Italia e il 10% nell’Ue.L’impulso giusto per la stabilità viene da lontano. Perché risale addirittura al 1982 il cosiddetto accordo di Wassenaar firmato dalle parti sociali: lì si decise una migliore distribuzione della forza lavoro, la riforma degli ammortizzatori sociali, la riduzione dei carichi contributivi e del ritmo di crescita dei salari. Da allora gli olandesi lavorano meno ma con una produttività più alta. In media sono 1.309 le ore lavorate all’anno contro le 1.745 degli spagnoli e le 2.390 dei sudcoreani, con una riduzione del 34% rispetto a 50 anni fa. Non solo: una legge del 2000 dà al lavoratore il diritto di richiedere un adattamento del proprio orario. Del 1999 è la Wet Flexibiliteit en Zekerheid, la legge che garantisce, appunto, il giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza e che farà esplodere il numero dei lavoratori part-time oltre il 40%, con le donne al 75% (nell’Ue il part-time femminile è al 33%). «La flexicurity dà la flessibilità per adattarsi alle dinamiche economiche e al tempo stesso la possibilità di dedicarsi maggiormente alla famiglia e all’educazione dei figli – spiega ad Avvenire Chris Schoenmakers, addetto agli affari economici dell’Ambasciata olandese in Italia –. Dall’altra parte viene posto l’accento sulla sicurezza, ovvero un sistema sociale che aiuta il lavoratore con il reintegro nel mercato del lavoro tramite la formazione e un aiuto nel cercare una nuova occupazione».Un’agenzia appositamente creata nel 2005 si occupa della formazione continua. Oltre 90mila i progetti individuali in cui sono stati combinati apprendimento e lavoro; 30mila quelli dedicati ai gruppi più disagiati; 20mila quelli diretti ai giovani. Tutto pur di evitare il male maggiore: la disoccupazione a lungo termine. «Il sussidio di disoccupazione serve da ponte tra due forme di occupazione – spiega Schoenmakers –. Viene elargito a condizione che il lavoratore dia la propria disponibilità a trovare lavoro. Viene garantito da un minimo di 3 mesi a un massimo di 38 ed è legato all’ultimo stipendio. Per i primi due mesi è il 75% dello stipendio, con un massimo di 185 euro al giorno, dopo è il 70%». Le imprese che assumono un disoccupato ricevono peraltro sussidi che diminuiscono il costo del lavoro. Nella lotta alla disoccupazione, infine, molto hanno influito l’intenso dialogo tra le parti sociali, che spesso sfocia rapidamente in accordi collettivi, e gli investimenti sulla scuola. «Sulla formazione da noi non si risparmia – sottolinea Maarten Veeger, del quotidiano Het Financieele Dagblad –. Si è puntato su settori occupazionali ad alta qualità, nei quali è più difficile subire la concorrenza di Paesi come Polonia o Cina, nei quali il costo del lavoro è più basso del nostro». Progressivamente è così diminuito l’apporto del settore tessile e ci si è lanciati verso l’hi-tech. «Un esempio su tutti – conclude Veeger – i famosi navigatori satellitari per auto provengono dall’Olanda, dove ha sede la TomTom». Una riconversione produttiva tornata utile in tempi di crisi e che ha contribuito a mantenere gli olandesi al terzo posto nella classifica europea del Pil pro capite. Non male se si pensa che ancora a metà anni Ottanta si parlava di "morbo olandese" per indicare il fallimento assistenzialista delle politiche di Welfare nei Paesi Bassi.
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