sabato 9 febbraio 2013
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​Retorica, slogan e una certa dose di demagogia sono inevitabili in campagna elettorale. E dunque non c’è da stupirsi se anche su un tema fondamentale, per certi versi drammatico, come quello dell’occupazione si registrano parole in libertà e polemiche francamente inutili. Con annessi frizzi e lazzi, in cui ormai si fatica a distinguere tra comici che imitano i politici e politici che si comportano da comici. Più preoccupante è però il fatto che anche nei programmi ufficiali delle coalizioni politiche la questione del lavoro sia trattata in maniera semplicistica, quasi sempre annegata in una dose eccessiva di ideologia. Con un furore iconoclasta che presuppone di far tabula rasa – o quasi – di quanto con enorme difficoltà e aggiustamenti successivi è stato costruito nell’ultimo decennio e più di recente.La questione non riguarda solo i nuovi movimenti come 5 Stelle, che intende partire dall’abolizione della legge Biagi del 2003, evidentemente ignorando che verrebbe così a mancare buona parte dei limiti oggi posti alle collaborazioni e si rischierebbe un forte incremento del lavoro non-regolamentato. E così pure quanti – da Rivoluzione civile a Sel – credono che basti ripristinare l’articolo 18 dello Statuto, ripetere come un mantra la parola "diritti" per ritrovarsi nei mitici (?) anni 70. Ma riguarda paradossalmente anche le tre forze politiche che hanno raggiunto un faticoso compromesso e approvato sette mesi fa la riforma Fornero. Già allora senza padri che ne rivendicassero orgogliosamente la genesi, adesso disconosciuta tanto dal Pdl quanto dal Pd. Persino fra i montiani non mancano i distinguo. Eppure delle due l’una: o si è perso tempo per tutto il 2012 e i tre partiti dovrebbero fare autocritica perché responsabili in solido dell’approvazione di una regolamentazione del mercato del lavoro sbagliata. Oppure si intende sopprimere la riforma prima ancora che abbia dispiegato i suoi effetti per puro spirito ideologico.I primi segnali, è vero, non sono stati confortanti: da subito si è avvertito un calo dei rinnovi in particolare dei contratti a termine e delle collaborazioni. Ma quanti di questi rapporti di lavoro non sono stati (ri)accesi per la rigidità delle nuove norme e quanti per la perdurante crisi economica? Quanti di questi – un terzo circa secondo alcuni studi territoriali – sono stati trasformati da rapporti precari a stabili? Quali delle norme approvate erano necessarie per frenare la precarietà di alcuni rapporti di lavoro? In realtà manca ancora una seria valutazione dei risultati della riforma, entrata in vigore poco più di 6 mesi fa e della quale non sono stati ancora emanati oltre la metà dei decreti attuativi. Un conto è allora prevedere aggiustamenti in corso d’opera, come è già avvenuto e come è ancora possibile, un altro è pensare di ripartire daccapo senza nemmeno aver prima misurato gli effetti di almeno uno-due anni della riforma e averli valutati sul piano scientifico e sociale.Piuttosto che nell’ennesimo gioco dell’oca sulle forme contrattuali e i licenziamenti, allora, varrebbe la pena che le forze politiche si cimentassero con una nuova sfida: quella delle politiche attive per il lavoro. Il nuovo bilancio, infatti, renderà disponibili fondi consistenti per favorire la nuova occupazione, in particolare dei giovani. E chi si candida a governare il Paese farebbe bene a spiegare come intende utilizzare quei soldi per la formazione, l’orientamento, l’incontro domanda-offerta e il ricollocamento. Meno ideologia e più politica, meno cabaret e più realismo, insomma, per creare lavoro.
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