domenica 3 aprile 2016
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ROMA È passato quasi in anno da quando il premier Matteo Renzi tirò fuori l’apologo della nonna e del nipotino: «Se una donna di 62-63 anni vuole andare in pensione due o tre anni prima rinunciando a 20-30-40 euro per godersi il nipote e risparmiare sulla baby sitter bisognerà trovare le modalità » per permetterle di farlo, disse il capo del governo. Lo stesso Renzi avvertiva in verità che per intervenire sulle pensioni «bisognerà fare attenzione ai denari». Ma inutile dire che l’annuncio alimentò molte aspettative e diede ossigeno alla forze sociali e politiche che puntano a modificare la legge Fornero. Le proposte non mancano ma tutte si scontrano, appunto, con il grande problema delle risorse. Il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano propone una penalizzazione del 2% l’anno dell’assegno per chi sceglie l’uscita anticipata (3-4 anni al massimo), e assicura che nel medio periodo la minore spesa unitaria delle rendite andrebbe a compensare il maggiore numero di pensioni pagate. Il problema però resta. Perché a meno che l’eventuale nuova normativa non sia così penalizzante da risultare inefficace (nessuno va via prima perché perde troppi soldi) nei primi anni farebbe comunque crescere la spesa pubblica, dato che ci sarebbero più pensioni da pagare e meno contributi pagati. E la contabilità europea ragiona sui bilanci annuali, non a 10 o 20 anni. Le stime effettuate sul pacchetto più organico di modifiche, presentato dal presidente dell’Inps Tito Boeri, mostrano che l’applicazione comporterebbe una maggiore spesa di 1,5 miliardi il primo anno, 2,5 il secondo e oltre 3 miliardi dal terzo in avanti. Nonostante una penalizzazione prevista per lasciare prima del 3% annuo (per 3 anni il 9%, ovvero 90 euro ogni mille di pensione). In una situazione nella quale la nostra politica economica resta strettamente sorvegliata dalla Ue la maggior spesa dovrebbe essere compensata da risparmi su altri capitoli, proprio mentre il governo punta a una riduzione delle tasse su imprese e redditi. I margini di intervento restano quindi esigui e per questo dopo gli annunci del 2015 l’esecutivo ha frenato. Nell’ultima finanziaria si è limitato a prorogare di un anno l’opzione donna (l’uscita con il calcolo solo contributivo e forti penalizzazioni) e a varare in via sperimentale un part time agevolato negli ultimi tre anni di lavoro. Una strada che il ministro Giuliano Poletti mostra di voler proseguire. Mentre si ragiona anche su forme di intervento che spostino, almeno formalmente, fuori della contabilità pubblica la maggiore spesa iniziale. Un esempio potrebbe essere il prestito pensionistico, una somma che il lavoratore riceve lasciando prima il lavoro e restituisce a rate una volta raggiunta la pensione vera e propria. Ma forse si tratterebbe ben più dei 30-40 euro ipotizzati. Quanti potranno permetterselo? Nicola Pini Tito Boeri
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