venerdì 26 maggio 2017
Il manager di Janssen Italia e presidente di Farmindustria: la farmaceutica italiana resta attraente per gli investitori stranieri. L'Ema a Milano? Sono ottimista, possiamo farcela
Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia e presidente di Farmindustria

Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Janssen Italia e presidente di Farmindustria

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Nella fabbrica di Borgo San Michele le macchine sfornano ogni giorno una dozzina di milioni di compresse, per una produzione annua che si aggira attorno ai 4,5 miliardi. Numeri enormi per quello che è uno dei più importanti stabilimenti al mondo di Janssen, la farmaceutica del colosso americano Johnson & Johnson che ha scelto l’Italia, e più precisamente la provincia di Latina, come base per la produzione mondiale di farmaci ad alta specializzazione e prodotti da banco. «Siamo a 4,5 miliardi di pastiglie prodotte ogni anno, ma possiamo espandere la produzione di altri 2 miliardi senza aumentare i costi» avverte Massimo Scaccabarozzi, presidente e amministratore delegato di Jannsen Italia nonché, per il terzo mandato consecutivo, presidente dell’associazione del settore, Farmindustria. Sulla fabbrica di Borgo San Michele il gruppo americano ha investito 100 milioni tra il 2011 e il 2015 e ne investirà altri 80 entro il 2021.


L’esperienza di Janssen conferma che l’Italia, nonostante le sue debolezze, resta attraente per gli investimenti stranieri.

È stato un lavoro iniziato nel 2010, quando l’azienda si chiedeva che cosa fare delle sue attività nel nostro Paese. Il farmaceutico attraversava un momento difficile per i continui tagli alla spesa pubblica e questo iniziava a preoccupare gli investitori. Mi sono fatto ambasciatore della forza del nostro Paese in termini di qualità e risorse umane. Ha funzionato.

La fabbrica ha sistema di avanzata automazione industriale, ma in cinque anni ha anche aumentato i dipendenti da circa 400 a oltre 650. I robot non rubano i posti di lavoro?

In fabbrica abbiamo robot estremamente innovativi, e li abbiamo già da quindici anni. Abbiamo anticipato industria 4.0, attraverso un rinnovamento che da noi ha portato un ampiamento del numero di risorse umane, con una riallocazione di persone qualificate incaricate di gestire le modalità produttive. Metà dei nuovi addetti hanno meno di 30 anni, il 44% dei dipendenti sono donne. È tutto lavoro qualificato: oltre il 90% sono diplomati e laureati.


In Italia in genere le retribuzioni dei laureati sono più basse rispetto che in altre economie europee, come Germania e Francia. Questo è stato un vantaggio?

C’è da dire che nel farmaceutico abbiamo livelli retributivi più alti della media industriale. Nel nostro caso più che il costo del lavoro conta la produttività e, come anticipavo, siamo in grado di aumentare la produzione di altri 2 miliardi di unità a parità di costi. L’impatto salariale è importante, ma non decisivo.

Il settore farmaceutico è tra quelli che stanno contribuendo alla “ripresina” in corso in Italia. In che modo si può agevolare la crescita del settore?

Abbiamo bisogno di un sistema di governance di spesa pubblica più adeguato all’innovazione che sta arrivando. Oggi la spesa farmaceutica ha un tetto fissato per legge, quando viene superato alle aziende viene chiesto di ripianare. Siamo ormai a livelli insostenibili: le aziende devono mettere circa 1 miliardo di euro su 15. Bisognerebbe trovare un sistema diverso che includa i farmaci in un più ampio conto di spese per la sanità, tenendo conto per esempio dei risparmi che un farmaco può dare allo Stato in termini di mancata ospedalizzazione di un paziente. Su alcuni aspetti, come quello dell’innovazione, il governo si è mosso bene, dovrebbe completare quest’ultimo miglio rivedendo il meccanismo del pay back.


Per la farmaceutica italiana potrebbero aprirsi nuove opportunità di crescita se Milano riuscisse a essere la prossima sede dell’agenzia farmaceutica europea, l’Ema. È ottimista?

Nel marzo scorso, prima di Brexit, sono stato il primo a dire che se nel Regno Unito avesse vinto il “leave” avremmo dovuto portare l’Ema in Itralia. È una grandissima opportunità. L’Italia ha individuato una sede importante come Milano e precisamente un edificio storico come il Pirellone, facendo vedere che abbiamo le caratteristiche per ospitare al meglio l’agenzia. Vedo ottime chance di farcela. Anche perché la farmaceutica che c’è in questo paese non ha pari in Europa.

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