venerdì 11 ottobre 2013
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​Ci sono scelte che lasciano l’amaro in bocca, in primis, a chi le compie. Enrico Letta, mentre fa diffondere il comunicato di "soddisfazione" per l’esito della vicenda, non è contento di aver propiziato l’intervento dell’ennesima "manina pubblica" nell’ennesimo salvataggio di Alitalia. La sua cultura liberale gli impedisce di esultare, gli blocca ogni moto di minima soddisfazione. «Stiamo facendo, in ritardo, quanto andava fatto cinque anni fa...», confida a margine dei tanti incontri di giornata con il ministro Lupi, con i vertici della compagnia di bandiera e con i numerosi attori di una vicenda che rischia di mettere a repentaglio un asset strategico per il Paese, specie in vista dell’Expo 2015.Per il premier esiste un unico orizzonte praticabile, l’integrazione con Air France-Klm. Esattamente lo stesso orizzonte non percorso dal governo Berlusconi nel 2008. Solo che oggi, scuote la testa il presidente del Consiglio, a quel matrimonio «rischiamo di arrivarci nudi, senza difese, deboli». Perciò serve il «pannicello caldo» di un partner pubblico, di un azionista solido che permetta di guardare i franco-olandesi, se non negli occhi, almeno all’altezza del cuore. È stata questa l’implorazione dei sindacati all’esecutivo.Non doveva andare così. Ma ormai c’è poco da recriminare. «Se siamo intervenuti è per le migliaia di lavoratori che rischiano il posto di lavoro», dice il premier consapevole delle critiche che gli pioveranno addosso dalle voci liberali dell’opinione pubblica. Non è insensibile, Letta, nemmeno a quella "vox populi" che già gira sul web, quell’amarezza - chiamiamola pure rabbia - dei cittadini che postano sui social network la loro indignazione: «Cinque anni fa lo Stato ha preso 4 miliardi dalle nostre tasche per pagare i debiti di Alitalia, e ha lasciato agli imprenditori una compagnia sana... E ora ci risiamo...». Come dargli torto?Non ci fosse l’ombra di un dramma occupazionale, il premier avrebbe lasciato al libero mercato la facoltà di dettare in pieno le sue condizioni. Ma le responsabilità di Palazzo Chigi sono innanzitutto verso il lavoro da proteggere. «Almeno li abbiamo costretti a fare la loro parte», dice Letta riferendosi ai "capitani coraggiosi", alla cordata che nel 2008 ha preso un asset senza carichi pendenti e con meno dipendenti per poi accumulare, in meno di 2000 giorni, più di un miliardo di debito. «Le responsabilità dei privati sono state enormi», dicono senza mezzi termini a Palazzo Chigi.

Ora però si guarda avanti. La nota ufficiale del governo, asciutta, cruda, chiude una fase d’emergenza. Il prosieguo della storia dipende dalla responsabilità degli altri azionisti. Poste è stata «il pannicello» trovato in extremis per iniziare a curare la bronchite. Ma solo se ci saranno «rinnovamento e discontinuità» l’esecutivo si prodigherà per trovare altre risorse da società pubbliche (Ferrovie è ancora un’opzione sul tavolo) e private. Perché una cosa è certa: per non far sparire il tricolore dai cieli, serviranno altri soldi.

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