mercoledì 17 novembre 2010
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Dopo due anni di dibattito parlamentare la riforma della giustizia del lavoro è finalmente legge dello Stato. Il cosiddetto "collegato lavoro" (così si chiama) è provvedimento tecnicamente complesso e di difficile lettura, anche per gli addetti ai lavori.Alcune parti di questa nuova legge hanno peraltro un contenuto programmatico e dovranno essere attuate dal governo nei prossimi mesi. Il riferimento è, in particolare, alle deleghe in materia di lavori usuranti, ammortizzatori sociali, servizi per il lavoro, incentivi alla occupazione, misure a sostegno della occupazione femminile. Altre norme sono invece immediatamente operative. Accanto alle norme sui temi della giustizia del lavoro si possono ricordare le disposizioni in materia di contrasto al lavoro sommerso e quelle relative alla possibilità di svolgere a 15 anni una forma peculiare di apprendistato, quello cioè che consente di acquisire una qualifica triennale del sistema educativo di istruzione e formazione.Il cuore della riforma è indubbiamente rappresentato dalle disposizioni sulla giustizia del lavoro. Una vera e propria emergenza se è vero che oggi la durata di una causa di lavoro è di quasi due anni e mezzo per il solo primo grado di giudizio, e di circa sette anni se si arriva alla sentenza della Cassazione. Non sorprende che siano circa 1.200.000 le cause di lavoro in attesa di giudizio. Una vera enormità che si ripercuote, negativamente, sulla effettività dei diritti del lavoratore, che non potrà mai uscire pienamente appagato da contenziosi snervanti e senza fine, così come sulla propensione delle imprese ad assumere e incrementare i tassi di occupazione regolare. L’incertezza su un esito di un giudizio può in effetti gravare sulle scelte delle imprese e, quindi, sulla loro produttività indebolendone la posizione sul mercato a danno di tutti i dipendenti della impresa. Per converso, una condanna in favore di un lavoratore rischia di arrivare sempre troppo tardi, comprimendo pesantemente la soddisfazione di bisogni primari delle persone come il salario e il mantenimento di un posto di lavoro.La cifra della riforma è che, tra le cause della crisi in cui versa la giustizia del lavoro, non vi siano norme di procedura sbagliate o difettose. Le leggi che regolano lo svolgimento del processo del lavoro sono anzi improntate a criteri di oralità e celerità, tanto che esse vengono spesso prese ad esempio quali modelli di riforma anche in altri ordinamenti. Vero è, invece, che il nostro Paese è caratterizzato da uno straordinario tasso di litigiosità, come testimoniano gli oltre 430mila ricorsi depositati ogni anno nelle cancellerie del lavoro dei Tribunali italiani. Colpa di un cattivo sistema di relazioni industriali certamente, che ancora privilegia il conflitto alla ricerca del bene comune. Colpa anche di un quadro legale indecifrabile che stimola ricorsi e cavilli. Stime incerte portano a parlare di circa 1.000 atti normativi che incidono, direttamente o indirettamente, sulla regolazione dei rapporti di lavoro per un numero approssimativo di oltre 15.000 precetti e disposizioni che quasi nessuno conosce nella loro totalità. Tutta questa moltitudine di norme si presta, molto spesso, a una pluralità di interpretazioni. Il che aggrava le incertezze, specialmente laddove il controllo da parte della magistratura giudica i casi sottoposti al suo esame sindacando anche nel merito della opportunità o della convenienza delle scelte aziendali. È certo prematuro dire oggi se il "collegato lavoro" raggiungerà l’ambizioso progetto di riduzione e razionalizzazione del contenzioso lavoristico. Alcune norme sono di immediata applicazione ed i risultati saranno presto verificabili se non in termini di minor durata del processo in sé, quanto meno in termini di minore attesa fra il fatto contestato e la decisione. Ci riferiamo alla abolizione del farisaico tentativo obbligatorio di conciliazione che si è concretizzato, nella prassi di questi anni, in una inutile istanza rivolta alle Direzioni Provinciali del lavoro affinché queste ultime provassero a convocare le parti al fine di provocarne la conciliazione: con il solo risultato che le Direzioni Provinciali, subissate dal numero di domande, o non convocano le parti o, se le convocano, si limitano ad un tentativo solo formale. Altre norme di immediata applicazione sono quelle relative al momento entro il quale le cause devono essere promosse. Il sistema sino ad oggi vigente di impugnazione dei licenziamenti prevede un termine di decadenza relativamente breve, di sessanta giorni, cui si accompagnano però termini di prescrizione molto lunghi. Per intenderci, una volta che il lavoratore abbia inviato al datore una lettera con cui manifesta la volontà di impugnare un licenziamento, potrebbe poi attendere anche anni per adire il tribunale, lasciando il datore nell’incertezza (e nel timore) di essere sempre esposto all’azione giudiziaria.Tutta da valutare, invece, la portata della introduzione dell’arbitrato quale strumento alternativo di risoluzione delle controversie. Molto dipenderà, ad esempio, da come le parti sociali regolamenteranno la disciplina, a loro interamente rimessa, della clausola compromissoria, cioè del patto con il quale le parti possono impegnarsi a devolvere al giudizio arbitrale ogni controversia che dovesse insorgere. Molto dipenderà, anche, da quanto i legali consiglieranno i loro clienti verso questa procedura alternativa, che ha il vantaggio di portare a una soluzione del conflitto più rapida ed equa (nel senso di più prossima al caso concreto), ma che è definitiva e inappellabile. Quello che si può certamente dire è che, come già accaduto per la legge Biagi, non servono ora nuove guerre di religione, ma solo la volontà di sperimentare per cambiare, pragmaticamente e con il buon senso, una cultura del lavoro e una attitudine al conflitto che ci vede oggi tutti sconfitti.
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