giovedì 12 novembre 2020
Gli investimenti di Pechino in Italia sono passati dai 537 milioni del 2015 ai 4,9 miliardi del 2018 Nel mirino soprattutto i settori strategici: energia, reti, innovazione
La lente del Copasir sulla Cina
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Gli occhi del Dragone sono sempre più puntati sull’economia italiana. E la penetrazione di capitali provenienti dalla Cina, almeno quella misurabile, è cresciuta esponenziamente, con flussi di investimenti diretti passati «da 573 milioni di euro nel 2015 a 4,9 miliardi nel 2018», a fronte di un calo imponente delle rimesse verso il colosso asiatico: «Da 237,7 milioni nel 2016 a 1,4 milioni nel 2020», cifra indicativa tuttavia poiché «le rimesse sono in buona parte frutto di economia sommersa o di attività criminali e successivo riciclaggio di denaro contante ». Sono solo alcuni fra i dati raccolti dalla Banca d’Italia e analizzati nell’addendum sulla penetrazione dei capitali cinesi nel nostro Paese, aggiunto alla relazione sulla tutela degli asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo inviata alle Camere dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

I dati Il dossier del Copasir, presieduto dal senatore Raffaele Volpi (Lega Nord), accende un faro su una realtà poco esplorata, mentre è in corso il dibattito i- taliano ed europeo sulle Reti 5G. «A fine 2019 risultano direttamente presenti in Italia 405 gruppi cinesi, di cui 270 della Repubblica Popolare Cinese e 135 con sede principale a Hong Kong, attraverso almeno un’impresa partecipata», si legge nel documento, messo a punto dal senatore Francesco Castiello (M5s) e dal deputato Enrico Borghi (Pd). «La relazione fa emergere alcuni nodi scoperti – dice Borghi ad Avvenire –. Anzitutto, la debolezza del capitalismo privato nazionale nel quadro del profondo riassetto del quadro capitalistico europeo e globale, per il quale il Covid funge da acceleratore». Come, conseguenza di ciò, prosegue Borghi, si evidenzia «l’idea che si possa chiamare in soccorso qualcuno dall’esterno per risolvere il nostro problema di competitività e di innovazione». Durante l’emergenza innescata dalla pandemia, parte dei flussi si sarebbe rallentata o interrotta, ma alcune concentrazioni paiono notevoli.

Le partecipazioni Gli imprenditori cinesi in Italia sono 50mila, presenti soprattutto al Nord. Fra loro 20mila nel commercio e 17mila nel manifatturiero, specie in Toscana con 7.485 ditte, mentre la Lombardia è in testa per ristoratori, baristi e fornitori di prestazioni alla persona. Invece le imprese italiane partecipate ammontano a 760 (572 direttamente da aziende cinesi, 188 da multinazionali di Hong Kong), con 43.700 occupati e un giro d’affari sui 25,2 miliardi di euro.

I settori strategici Manifatturiero in testa. Poi prodotti farmaceutici, elettronici, ottici, produzione di oggetti metallici, in gomma e plastica. E spiccano gli elettrodomestici, con l’acquisizione di Candy Hoover Group da parte del gruppo Haier. Secondo il Copasir, la longa manuscinese si muove su tre linee: gli investimenti brownfield (cioè legati alla riconversione) in aziende fondate in Italia da soci italiani; fondi in aziende create in Italia da cittadini o aziende cinesi (investimenti greenfield); acquisto di azioni di società italiane quotate, dove «energia, reti, aziende ad alto potenziale strategico e innovative vedono una grande concentrazione di capitali cinesi ». Qualche esempio? Nei settori strategici operano multinazionali come «StateGrid», entrata in Cdp Reti S.p.A. (finanziaria dell’energia che controlla Terna, Snam e Italgas) e ChemChina, che in Pirelli è azionista di maggioranza (col 45%), col presidente Ning Gaoning. Nel 2014 la Shangai Electric Corporation ha comprato «il 40% di Ansaldo Energia S.p.A., mentre quote di Eni, Tim, Enel e Prysmian sono sotto il controllo della People’s Bank of China, la banca centrale cinese». E quote di minoranza sono detenute in Intesa San-Paolo, Saipem o in marchi della moda come Moncler e Salvatore Ferragamo.

Schermi e scatole cinesi L’analisi non trascura di menzionare la parte 'opaca' dei flussi finanziari in entrata «attraverso fondi di investimento, società di gestione del risparmio, fiduciarie o finanziarie» che «schermano l’identificazione del titolare effettivo degli investimenti». Come nel caso del fondo sovrano cinese China Investment Corporation, che investe in Europa «attraverso alcune catene societarie di diritto lussemburghese». Un gioco di specchi che rende difficile, avverte il Copasir, «intercettare l’origine dei fondi e ricondurre l’azionariato a soggetti cinesi». Occorre vigilare, dunque. Ma in ogni caso, secondo il membro del Copasir Borghi, «i fondamentali dell’Italia sono sani, anche se dobbiamo fare un salto in avanti sulla capacità di fare sistema interno», sull’esempio di altri Paesi vicini.

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