sabato 29 dicembre 2012
La Grande Crisi è davvero finita? Lo dirà solo il voto in Germania. Nel 2012 sono stati clamorosamente smentiti i profeti di sventura, ma sarebbe azzardato dire che la recessione è alle spalle.
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​Qual è la verità sullo stato di salute dell’euro? Supererà la crisi intestina che da quasi un lustro ne ha fatto il "grande malato" del sistema monetario mondiale, o finirà con l’implodere? Gli interrogativi, accompagnati da contrapposte profezie di statisti, economisti, speculatori, sono appesi ad una data, sempre più ravvicinata: l’autunno del 2013, allorché gli elettori tedeschi andranno alle urne. Formalmente, in ossequio ai rituali della democrazia, per eleggere il nuovo Parlamento di Berlino; in realtà ad esprimersi, sia pure in via indiretta, sulla scelta di una maggioranza politica, ancor prima che partitica, favorevole, contraria (quantomeno scettica) alla "convenienza" per la Germania di proseguire lungo il cammino della moneta unica.Facendo credito ai più recenti sondaggi, da prendere tuttavia con le molle, sei tedeschi su dieci rimpiangono il "vecchio e caro Marco". A dispetto di ogni principio di solidarietà, si dichiarano indisponibili a prendersi carico dei debiti accumulati dalle "Nazioni cicala": Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. E nella scia di Berlino si collocano Paesi per ragionieristica definizione "virtuosi": Finlandia e Olanda.Queste scure nubi che si profilano all’orizzonte, sono tuttavia validamente contrastate da piccole, eppur significative schiarite. La principale rappresentata dalla caduta dello spread. Parola che ha fatto irruzione nel nostro quotidiano, a significare la differenza del tasso d’interesse fra il rendimento dei titoli pubblici dei "Paesi deboli" rispetto a quelli analoghi, tedeschi.Proviamo a decifrare, entrando nei segreti meandri della finanza. Appena un anno fa, novembre 2011, al momento del passaggio dal Governo Berlusconi a quello di Mario Monti per indurre gli investitori a sottoscrivere i Bot decennali, il Tesoro era obbligato a offrire un tasso d’interesse annuo del 7 per cento circa, contro l’1 o poco più delle emissioni analoghe della Bundesbank, con una differenza (lo spread, appunto), arrivato al 5,74 per cento. Ancora peggio per Portogallo e Spagna, mentre la Grecia viaggiava sull’orlo del fallimento, e conseguente uscita dall’euro con un ritorno alla Dracma.Ebbene, nel volgere di dodici mesi, pur fra alti e bassi, questo spread si è pressochè dimezzato per l’Italia, ma altrettanto bene è andata in Spagna, grazie alla cura da cavallo del neo-premier Mariano Rajoy, illuminato e decisionista, alla pari del nostro Mario Monti.Senza nulla togliere ai meriti indiscutibili di Monti e Rajoy che, autentici statisti, hanno avuto il coraggio di presentare una realtà senza veli di comodo alle rispettive opinioni pubbliche chiamandole ad un supplemento di rigore fiscale, un ruolo fondamentale lo ha esercitato la Banca centrale europea (Bce), guidata con mano fermissima e lungimirante da Mario Draghi, insediatosi a Francoforte dopo aver retto la Banca d’Italia.Attraverso i conferimenti dei Paesi dell’Eurozona, la Bce detiene una massa di manovra di oltre mille miliardi. (Per un metro di raffronto: la metà dell’intero debito pubblico italiano). Senza esitazioni, ha messo a disposizione delle maggiori banche, spesso a rischio di fallimento, somme ingentissime a tassi prossimi allo zero. Scongiurando un <+corsivo>crack<+tondo> per molti versi simile a quello che generò la Grande depressione degli anni Trenta, con le ricadute politiche di cui testimonia la Storia del Novecento: miseria, dittature, guerre.Di fronte a questo autentico miracolo finanziario, non disgiunto da un solidarismo reale, sarebbe pertanto fuorviante oltre che ingeneroso sostenere che l’euro non abbia funzionato. Clamorosamente smentendo quegli economisti anglosassoni capeggiati da Nouriel Roubini e dal banchiere Willem Buiter del colosso Citigroup, che avevano coniato il termine Grexit, ad indicare l’uscita di Atene dalla moneta unica segnando l’inizio del "si salvi chi può".Sarebbe tuttavia azzardato e fuorviante sostenere la tesi della fine della crisi. Infatti la pur drastica riduzione dello spread è, correttamente giudicando lo scenario dell’Eurozona, l’unica notizia positiva in un contesto che permane decisamente negativo. Per l’Italia e gli altri Paesi deboli cui, negli ultimissimi mesi, s’è unita pure la Francia.Non esistono pertanto ragioni di autocompiacimento. Anzi. Troppi segnali ammoniscono che ovunque, con l’eccezione di Germania e, in misura minore, Olanda e Finlandia, le incognite permangono: continua a crescere il debito pubblico accumulato, aumenta la disoccupazione, cala il reddito a disposizione delle famiglie. L’accresciuta pressione fiscale (il pensiero va all’Imu), assorbendo una grossa fetta delle tredicesime, deprime i consumi. Comprensibile lo scetticismo del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale. Pur assegnando, per quel che ci tocca da vicino, un 7+ in pagella al Governo Monti, prefigurando un 2013 ancora in recessione, rinviano al 2014 i segnali di una "timida ripresa".È mortale peccato d’omissione il fingere di non vedere, artificiosamente oscurando la realtà del crollo dell’occupazione, specie giovanile, delle piccole e medie imprese costrette a chiudere per via della stretta creditizia bancaria. Mentre il settore immobiliare è con l’acqua alla gola, avendo le banche drasticamente tagliato i mutui in passato concessi ad occhi chiusi, con scarso discernimento in ossequio alla pura logica del profitto.Ciò va detto e sottolineato, poiché anche questa crisi epocale (con parecchie analogie con quella degli anni 1929-33), è scaturita dalle degenerazioni del sistema bancario-finanziario, più sensibile alle sirene della speculazione che al ruolo di mediatore sul triangolo basilare di ogni economia: investimenti-produzione-consumi.Facendo leva sul "tesoro" rappresentato dal risparmio delle famiglie. Ora mortificato in ogni sua forma.Pur evitando processi (se ne occuperà la Storia economica di questo turbolento decennio del XXI secolo), torniamo all’interrogativo di partenza: quello che si apre sarà per l’euro un anno di convalescenza verso un definitivo recupero oppure il momento in cui i tanti nodi, le contraddizioni accumulate, verranno inesorabilmente al pettine? Evitando previsioni sia ottimistiche che pessimistiche, recuperiamo il punto di partenza. Cioè la Germania della cancelliera Angela Merkel. Discorsi e comportamenti nei summit che si susseguono a getto continuo, oscillano fra impuntature e dichiarazioni di fedeltà. Comprensibile per chi ha memoria: negli Anni Ottanta, il cancelliere Helmut Kohl subì il ricatto del presidente francese François Mitterand che subordinò il via libera di Parigi all’unificazione delle Due Germanie (l’Ovest democratico e l’Est comunista), alla rinuncia al Marco. Ora, molti tedeschi ritengono di avere onorato il debito. Forse non è così vero, ma tant’è. Inoltre sul terreno del big business, dei grandi affari, Berlino è ormai più prossima a Varsavia e a Mosca, Pechino e Nuova Delhi, che ai sempre meno redditizi mercati del Vecchio Continente. Nell’attesa della tornata elettorale tedesca, avremo però quella nostrana. E sicuramente, come le avvisaglie prefigurano, l’euro costituirà uno dei pomi della discordia. Con un euroscetticismo nemmeno troppo mascherato, sia Berlusconi che Beppe Grillo, hanno preso a sparare ad alzo zero sulla moneta unica, poi prendendo di mira la Germania, accusata di avere salvato le proprie indebitatissime banche a spese delle nazioni più deboli. Situazione intricata e gravida di pericoli, quella che si prefigura col Nuovo Anno. Certo, una schiarita è venuta dal summit di Bruxelles, prefigurando solidarietà ed impegno per superare l’attuale crisi. Ma sbaglieremmo nascondendo la verità dietro a un dito ed ai balletti diplomatici: il destino dell’Eurozona è in non poca misura appeso ai risultati delle "politiche" del 2013: febbraio in Italia, settembre in Germania.
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