lunedì 12 giugno 2017
Scioperi contro le chiusure a Milano. Il gruppo svedese è costretto a reinventarsi
La crescita di H&M sembra passata di moda
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A Milano sabato erano un centinaio i lavoratori che protestavano fuori dal negozio di H&M in piazza San Babila. Rischiano di venire licenziati dalla multinazionale svedese dell’abbigliamento, che ha deciso di chiudere quattro store in Italia. Uno a Cremona, uno a Mestre e due a Milano: quello storico di San Babila, il primo H&M aperto nel nostro Paese 14 anni fa, e quello più piccolo in Porta Venezia. Gli esodati saranno 89, 51 dei quali a Milano. «Hanno in media tra i 35 e i 40 anni» spiega Gabriella Dearca, funzionaria Uil Tucs, che con Filcam Cgil ha organizzato il presidio. Un fattore da tenere in considerazione per una compagnia che ha personale ancora più giovane. Patrizia Serru per esempio ha 41 anni ed è vetrinista nello store di San Babila «da 14 anni, da quando ha aperto». Lei come molti colleghi è assunta a tempo indeterminato.

Il sentore generale è che la catena svedese voglia licenziare lavoratori con contratti solidi per aumentare quelli a chiamata o determinati. L’azienda si è impegnata ad assicurare un nuovo posto agli esodati, aprendo una lista di ricollocazione che contiene proposte per nuovi posti nel nord-centro Italia. Ma i dipendenti non sono convinti: queste nuove opportunità non coprono il totale degli 89 che prima di Natale potrebbero essere licenziati e in Lombardia sono solo 10 i posti proposti. Per persone con famiglie o problemi a spostarsi, è sicuramente uno scoglio doversi trasferire anche solo fuori dalla regione. «Da gennaio abbiamo aperto cinque nuovi negozi e altri apriranno – specifica Giulia Salinari, pr manager Italia per H&M – l’Italia è un Paese dove siamo in crescita e dove abbiamo potenziale per crescere».

Il gruppo promette la «massima disponibilità » a trattare con le parti sociali. Il prossimo 23 giugno ci sarà un nuovo tavolo di confronto, dove i sindacati chiederanno «ricollocazioni accettabili e una discussione sulle eventuali condizioni di uscita», dice Dearca. C’è un altro fatto che fa arrabbiare il personale: H&M ha inaugurato solo qualche mese fa un flasgship store a tre piani a Porta Venezia, sempre a Milano. Mentre è di due anni fa un’altra apertura, quella di un altro flagship store in piazza Duomo. Prevedendo queste operazioni, si chiedono, il gruppo non avrebbe potuto collocarci lì? Il bilancio dello scorso anno mostra inoltre che la società in Italia gode di buona salute ed è in utile. Ma H&M fa sapere di non avere strategie sul medio-lungo ma sul breve: «Ogni negozio ha una propria sostenibilità economica, con costi e ricavi a sé – spiega Salinari – senza contare che il retail è in continua evoluzione e l’azienda deve adeguarsi ai cambiamenti». È proprio questo in effetti il nodo della questione: è necessario allargare il focus e cogliere i segnali che spiegano come il mercato del fast fashion stia cambiando con grande velocità, per capire quello che sta succedendo.

Anche una grande realtà come H&M, che in passato ha scosso – insieme ad altri marchi – il mondo della moda con collezioni in restock continuo a cadenza frequente, ha dei competitor. Sono marchi ancora più economici – come Primark –, e i colossi dell’online Zalando, Asos, Amazon. Non solo: diversi anni fa H&M è stata sorpassata da un altro gigante, ovvero Zara, che cresce di più. Come ha risposto? Per esempio proponendo nuovi brand, in un’ottica di diversificazione, come Cos e & Other Stories, di fascia più alta. Karl-Johan Persson, l’amministratore delegato di H&M, ha spiegato che vede nell’online una grande opportunità, soprattutto se combinato con un network forte di punti di vendita fisici. Dove a dover migliorare, segnala lui stesso, è la catena di fornitura, che deve diventare più veloce per essere competitiva. La paura degli analisti in realtà è un’altra: che H&M in futuro possa avere profitti più bassi cercando di proporre tutti i servizi che richiedono gli utenti che acquistano online, come la spedizione e il reso gratuito, che a oggi invece sono a pagamento. Profitti che si sono già ridotti: se nell’ultimo anno il fatturato è cresciuto gli utili operativi sono però scivolati dell’11,5%.

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