sabato 29 maggio 2021
I magistrati contabili: la tassa sui redditi è concentrata su lavoro dipendente e pensioni, sbilanciata sulla classe media e spesso è distorta. Il governo è al lavoro per la legge delega
La Corte dei Conti

La Corte dei Conti - Fotogramma

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Non sarà la tassa di successione la protagonista della riforma fiscale. La proposta di Enrico Letta ha messo la tassazione delle eredità al centro del dibattito, ma la riorganizzazione del fisco in Italia non può che partire dall’Irpef. L’Imposta sul reddito delle persone fisiche è quella da cui lo Stato incassa di più: 191,6 miliardi nel 2019. Garantisce quasi 60 miliardi di incassi in più rispetto alla seconda imposta (l’Iva), oltre sei volte il gettito della terza imposta (l’Ires, quella sui redditi delle società) e circa duecentoquaranta volte gli introiti dell’attuale tassa di successione.

Nel 2023 l’Irpef festeggerà i suoi primi cinquant’anni, ma non li porta affatto bene. Il Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica diffuso ieri dalla Corte dei Conti dedica un’ampia analisi ai motivi che rendono ormai urgente una profonda revisione dell’imposta sui redditi delle persone. L’Irpef era stata introdotta nel 1973 per andare oltre un sistema in cui le imposte erano principalmente reali e proporzionali: cioè colpivano la ricchezza, a prescindere dalla situazione del contribuente, e avevano aliquote costanti, con il risultato che in proporzione alla propria capacità i più poveri pagavano come i ricchi. La nuova Imposta sui redditi aveva tre grandi caratteristiche: era personale, quindi legata al contribuente più che alla sua ricchezza; onnicomprensiva, cioè capace di includere tutte le tipologie di reddito; progressiva, perché le aliquote aumentano con il crescere del reddito.

I magistrati della Corte dei Conti notano però che i tanti interventi fiscali “minori” negli ultimi anni hanno indebolito l’Irpef in quelli che dovevano essere i suoi punti di forza. Il primo problema sono state le “cedolarizzazioni”: i redditi finanziari, quelli immobiliari, quelli dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi sono gradualmente usciti dall’imponibile dell’imposta sui redditi ottenendo tassazioni separate, molto spesso forfettarie e più convenienti. «Tali deviazioni – scrivono i magistrati contabili – hanno condotto nel tempo ad un prelievo quasi esclusivamente concentrato sui redditi da lavoro dipendente e pensione, piuttosto sbilanciato sui redditi medi e con andamenti irregolari e distorsivi delle aliquote marginali effettive». Il secondo problema sono le agevolazioni fiscali. Ogni anno si sono aggiunte nuove detrazioni e deduzioni: attualmente ci sono 256 agevolazioni che permettono di ridurre l’Irpef, con un calo del gettito stimato in 53 miliardi per il 2021. Quasi la metà di queste riguardano gli immobili. Gran parte di queste agevolazioni, nota la Corte dei Conti, hanno effetti “regressivi”, avvantaggiano cioè solo i contribuenti più ricchi, anche perché spesso sono gli unici in grado di cogliere le opportunità concesse dal fisco.

Con buona pace dell’idea di tassazione progressiva. Le continue modifiche alle agevolazioni fiscali, inoltre, rendono molto più difficile misurarne i risultati: «Quando le spese fiscali hanno il fine di incentivare investimenti e comportamenti che dovrebbero avere dei ritorni nel medio lungo periodo – come nel caso degli incentivi per la Ricerca e Sviluppo o l’efficienza energetica – l’incertezza del quadro normativo mette a repentaglio il raggiungimento dei fini originari». Il terzo grande problema è naturalmente l’evasione fiscale, che per l’Irpef è stimata più o meno attorno 32 miliardi di gettito all’anno, concentrata soprattutto nel lavoro autonomo.

Con queste premesse, dicono i magistrati contabili, la riforma deve puntare a rendere l’Irpef molto più semplice. Bisogna decidere prima di tutto se si vuole mantenere un sistema “duale” in cui tanti redditi sono tassati “a parte”, tornare a un modello più “comprensivo”, uniforme per tutti i tipi di reddito, o scegliere una via intermedia. Nel farlo occorre considerare che le addizionali locali portano 17 miliardi di euro nelle casse di Regioni e Comuni, che non possono restare senza questi fondi. E ricordare che tra il 1970, quando l’Irpef è stata pensata, e oggi il peso del reddito da lavoro sul Pil è sceso dal 62% al 52%.

Per questo la revisione dell’Irpef deve essere coerente con la riforma fiscale più complessiva. Dove, tra le ipotesi avanzate dalla Corte dei Conti, si potrebbero accogliere i ripetuti suggerimenti internazionali per spostare parte del carico fiscale dal lavoro alle cose (e quindi alzare l’Iva per abbassare le tasse sui redditi). La stessa Iva, a cui i magistrati dedicano un capitolo a parte, potrebbe essere semplificata passando a un modello a due sole aliquote. Attualmente le aliquote implicite di tassazione su lavoro, consumo e capitale sono molto sbilanciate sul lato del lavoro, sul quale si applica un’aliquota di circa il 43%, contro il 30% di tassazione del capitale e il 15% di tassazione dei consumi. In tutti i casi, aggiunge la Corte, occorre una revisione dei valori catastali, considerata «elemento necessario» in ogni possibile modello di modifica della base imponibile.

È probabile che molti dei suggerimenti dei magistrati contabili entreranno nella riorganizzazione delle tasse a cui sta lavorando il governo. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza c’è l’indicazione esplicita di una legge delega per la riforma fiscale che il Parlamento è chiamato ad approvare entro il 31 di luglio. L’obiettivo generale è alleggerire il peso del fisco sulla “classe media” e creare un sistema di tassazione capace di sostenere la crescita equa e sostenibile. Una sfida evidentemente complicatissima.

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