lunedì 20 giugno 2022
Cinquantotto italiani su 100 giudicano i valori dell'azienda parametro decisivo nella scelta di brand e prodotti. La ricerca di Banca Ifis.
L'economia della "bellezza" passa dall'estetica all'etica
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Kalòs kai agathòs, cioè bello e buono: il modello greco, sinolo di bellezza e bontà, pare impregnare di classicismo la stessa domanda di beni di consumo. Cinquantotto italiani su 100 giudicano i valori dell'azienda parametro decisivo nella scelta di brand e prodotti. Comprano per etica (non solo per estetica) e ridisegnano anche i confini dell'offerta. L'economia della bellezza resiste all'urto del covid proprio per la sua capacità di aprirsi alla dimensione della responsabilità sociale: attenzione ai diritti, sostenibilità e tutela dei lavoratori. Che ormai si affermano spontaneamente nel mercato: li chiede il cliente, mica una legge d'attuazione dell'articolo 41 della Costituzione.

Basta leggere la ricerca di Banca Ifis, l'economia della bellezza occupa il 24% del Pil. Non solo imprese della cultura e del made in Italy, l'8,4% di questa quota sono purpose-driven, aziende guidate da uno scopo. Parità di genere, benessere dei lavoratori, sostenibilità ambientale. Ma anche partecipazione democratica, attenzione al territorio e diversità generazionali: 46mila imprese producono 650 miliardi di euro perseguendo uno di questi obiettivi. Presidiano 11 settori produttivi e hanno un fatturato medio di 14 milioni di euro, riflettendo pienamente la struttura del sistema produttivo italiano di Pmi (piccole e medie imprese). La parola bellezza si arricchisce allora di un nuovo significato, giustizia, e "alla luce della nuove e sempre più diffuse sensibilità rispetto ai temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica, conferisce alle aziende maggiore resilienza - dice Ernesto Fürstenberg Fassio, Vice Presidente di Banca Ifis.

Un'attività fondata sui valori, oltre che sul profitto, non è fenomeno esclusivo del giorno d'oggi: solo l'11% è nato dopo il 2018, l'89% erano già consolidate sul mercato. La novità è piuttosto nell'attivismo dei consumatori che ormai si spingono a esercitare controllo sociale anche sul modello di business: il 31% degli italiani ascolta la voce dei dipendenti dell'impresa; il 30% consulta bilanci di sostenibilità e altri report; un altro 29% si affida alle certificazioni di organismi indipendenti. Attenzione però al capitale umano: produrre bellezza (anche in senso valoriale) richiede nuove competenze. Quasi il 50% dei percorsi formativi saranno da creare ex novo, l'attuale modello non è più funzionale.

Sui social, proprio questi giorni, molti consumatori indicano come virtuoso l'esempio della catena di hamburger di Malaga: dove i tre giovani proprietari hanno preso la rivoluzionaria decisione di scrivere sul menù quanto guadagna un cameriere, se ha un contratto a tempo indeterminato e da quanto tempo lavora per loro. Dopo la sostenibilità ambientale anche i diritti sociali sembrano diventare cruciale elemento di competitività.









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