sabato 14 maggio 2016
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MILANO La raccolta fondi, o fundraising, è ciò che permette a larga parte del Terzo settore di operare. La responsabilità della raccolta fondi è in capo al fundraiser, una professione emergente che in questi ultimi anni è andata affermandosi anche in Italia, a partire dalle grandi organizzazioni non profit. Quella dei fundraiser è diventata così una vera e propria community, consapevole della criticità del proprio lavoro. E da quasi un decennio si ritrova puntualmente ogni anni al 'Festival del Fundraising', il più grande appuntamento del settore in Italia, che ieri a Lazise, sul Lago di Garda, ha chiuso la nona edizione. «È la quarta conferenza più grande al mondo per il fundraising, la prima in Europa», spiega il professor Valerio Melandri, direttore del Master universitario in Fundraising presso la facoltà di Economia di Forlì (Università di Bologna) e fondatore del Festival del Fundraising. Quest’anno i partecipanti erano quasi 800 (150 nella prima edizione), il 15% dall’estero, oltre a più di 400 iscritti alla diretta streaming via internet delle plenarie. Insieme all’economista Stefano Zamagni, Melandri è stato al centro di uno degli incontri principali in programma. Tema: etica e fundraising. «C’è una necessità di etica nel fundraising – dice – anche perché è una professione ancora non riconosciuta, dove mancano regole e codici». C’è chi vede appunto nella costruzione di regole una possibile strada da battere, col rischio però di finire per complicare più che facilitare le cose. C’è poi chi ritiene che il fundraiser debba prima di tutto portare a casa risorse, per cui qualunque attività o metodologia, magari anche discutibile, per colpire e attirare l’attenzione viene di fatto legittimata. Melandri propone una strada diversa: «Bisognerebbe riscoprire – afferma – un’etica della vocazione, affinché chi decide di fare questo mestiere, con il cuore e con la testa, lo faccia appunto per vocazione. L’obiettivo del Festival è questo: suscitare vocazioni al fundraising ». Le questioni etiche sono destinate a diventare ancora più critiche se si pensa alla direzione verso cui il fundraising sta rapidamente evolvendo. Che è quella di un utilizzo sempre più intenso di immagini e video nel racconto di storie ( storytelling) che spingano le persone ad attivarsi, non solo con la donazione. Lo ha detto chiaramente Abigail Disney (nipote di Walt Disney), presidente di Daphne Foundation e di Fork Films: «Per far sì che le persone si attivino – ha dichiarato Disney, regista, filantropa e attivista – numeri e statistiche non bastano. Occorre raccontare le storie in maniera più empatica, in modo che emozionino e ispirino, convincendo le persone all’azione». Le ha fatto eco Marcia Stepanek, docente di digital fundraising alla Columbia University a New York: «Oggi lo storytelling è il nuovo fundraising – ha detto – e con uno smartphone in tasca siamo tutti, potenzialmente, dei fundraiser». Senza nulla togliere alle nuove tecnologie, ci sono però storie che sanno esprimere un messaggio potente a prescindere dal mezzo o dal modo con cui si raccontano. Ad esempio quella dei coniugi Maria Edmea Sambuy e Francesco Zen, che sostengono Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati) dai tempi delle operazioni umanitarie nella ex-Jugoslavia, più di vent’anni fa. Hanno ricevuto da Assif (vedere box in pagina) il premio Donatore dell’anno: «Donare – affermano – è il nostro modo per sentirci parte del mondo e allargare il nostro raggio d’azione. Fino ad includere i rifugiati, persone che scappano per poter continuare a vivere». © RIPRODUZIONE RISERVATA Abigail Disney e Valerio Melandri Stefano Zamagni
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