venerdì 9 dicembre 2022
La misura del governo punta a incentivare gli agricoltori a vendere il raccolto, invece che a stoccarlo. L'obiettivo è di ridurre fino al 2,5% il rapporto deficit/pil, L'inflazione è all'88%
La discarica di Lujian, in Argentina, dove molte persone si recano ogni giorno in cerca di qualcosa da riciclare o rivendere: la crisi economica è sempre più grave

La discarica di Lujian, in Argentina, dove molte persone si recano ogni giorno in cerca di qualcosa da riciclare o rivendere: la crisi economica è sempre più grave - Ansa

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Cosa direste se, per comprare due diversi tipi di prodotto, vi venisse applicato un tasso di cambio con il dollaro differente? E se, per vendere prodotto della vostra azienda, il cambio fosse ancora diverso? Oppure, ancora, se vi trovaste di fronte a un quarto tasso di cambio differente, magari maggiorato da una tassa, nel caso in cui, da turisti, acquistaste un souvenir all’estero con la vostra carta di credito? Fantascienza? Finanza più che creativa? Eppure è che ciò che sta già accadendo in Argentina, Paese che da tempo vive una grave crisi economica, con un tasso di inflazione salito a ottobre all’88% annuo. Ebbene, Buenos Aires ha ormai un singolare record: detiene infatti dieci diversi tipi di cambio riconosciuti ufficialmente, alcuni introdotti dal governo come misura di stimolo all’economia, altri invece, la gran parte, come deterrente.

L’ultimo arrivato è il “dollaro soia”, elaborato dall’esecutivo con l’obiettivo di incrementare le esangui riserve valutarie della Banca centrale argentina (Bcra). Così, in soli dieci giorni, il programma di stimolo delle esportazioni di soia ha fruttato vendite per 1,3 miliardi di dollari e l'accumulo di divise fresche per oltre 600 milioni di dollari. Il meccanismo ha fissato fino al 31 dicembre il valore del dollaro a 230 pesos contro i 170 pesos della quotazione ufficiale, puntando a incentivare i produttori agricoli a vendere il raccolto piuttosto che stoccarlo in attesa di migliori condizioni di cambio. Una sorta di “svalutazione mimetizzata”, grazie alla quale il governo dovrebbe raggiungere entro la fine dell'anno l'obiettivo di incamerare fino a tre miliardi di dollari extra dalle esportazioni e di ridurre fino al 2,5 per cento il rapporto deficit/pil, come prevede il rigido accordo siglato con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per il rifinanziamento del debito di 45 miliardi di dollari contratto nel 2018.

Il “dollaro soia” è però solo l’ultimo arrivato. A ottobre il governo arrivò a introdurre il cosiddetto “dollaro Coldplay”, introdotto a ottobre visto l’ingente fatturato ottenuto dalla band inglese nella recente tappa argentina del loro tour. La fuoriuscita dal Paese dei 35 milioni di dollari frutto dei 600mila biglietti venduti per i dieci concerti consecutivi allo stadio Monumental di Buenos Aires ha infatti messo in allarme l'esecutivo argentino, che ha prontamente varato un decreto che impone una tassa del 30 per cento extra al tipo di cambio per le "attività ricreative e culturali organizzate nel Paese da non residenti".

Il 13 luglio era stato varato il cosiddetto “dolar turista”, composto dal valore al tipo di cambio ufficiale più una tassa del 75% da applicare agli acquisti fatti al di fuori dell'Argentina con carte di credito o debito nazionali. A questo si aggiungono poi i tipi di cambio non fissati dal governo e frutto invece della libera dinamica sia del mercato nero, dove regna il “dollaro blu”, sia dei mercati finanziari, dove è legale l'acquisto con pesos di titoli in dollari a un valore denominato “Mep”. Il valore del “dollaro blu”, che da settimane è sopra i 300 pesos, è quello a cui fa riferimento l'argentino medio, che compra e vende la divisa Usa per mettersi al riparo dalla svalutazione e dall’inflazione.

Secondo il direttore del Instituto de investigaciones económicas (Iie) di Cordoba, Ariel Barraud, l'intervento costante del governo sul mercato dei cambi "se da una parte può dare risultati positivi sul breve termine è dannoso sul lungo termine come succede sempre quando si interviene il mercato". "Nel caso del dollaro soia – continua Barraud - la differenza tra il valore ufficiale e quello fissato dal decreto viene pagato dallo Stato attraverso emissione monetaria che sul lungo termine alimenta l'inflazione". "Avere un prezzo in dollari per ogni prodotto – conclude l’esperto - priva il mercato di un riferimento indispensabile e non aiuta a ristabilire la fiducia nel peso", fattore che "rappresenta il vero problema".

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