giovedì 23 giugno 2016
​Valgano l'8% del Pil. Nella ricerca del Centro Studi i numeri sfatano i luoghi comuni. Gli stranieri legali? Sono poco più del 10% della popolazione, ma un italiano su due pensa siano il doppio.
Immigrati, non rubano il lavoro a nessuno
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Meno di quanti gli italiani credano. Ma soprattutto, produttivi, poco costosi per lo Stato, utili in tempi di inverno demografico. I numeri snocciolati dal Centro studi di Confindustria (Csc) sugli immigrati in Italia sfatano molti luoghi comuni e fotografano un apporto decisivo del loro ruolo alla vita del Paese.Gli immigrati legali residenti in Italia nel 2015 sono circa 5,8 milioni, pari al 9,7% della popolazione totale e in crescita rispetto al 1,4 milioni del 1990 e ai 2,1 milioni del 2000. Ma in Italia – prima evidenza dello studio Csc – il fenomeno è «sovrapercepito»: gli italiani cioè pensano che la percentuale di stranieri presenti sul territorio ammonti al 26% della popolazione, il 17% in più. Quanto ai migranti irregolari, sono meno di 300mila, il 6% dell’immigrazione totale. Un paragone con gli altri Paesi? Anche questo tradisce una sovrapercezione tutta nostrana: l’Italia è in linea con la percentuale di presenza di immigrati nell’Ue, dove la media sulla popolazione è del 10,7%, e persino negli Usa, dove la percentuale sale anzi al 14,5.Altro luogo comune spazzato via dai numeri reali: gli immigrati, spiega il rapporto di Csc, «non rubano lavoro agli italiani» (a pensarlo è la metà della popolazione del Belpaese). A differenza di quelli in altri Paesi, gli immigrati in Italia sono poco istruiti e, persino quando hanno una laurea o un diploma, tendono a svolgere lavori non qualificati e meno remunerati, poco appetibili per i nativi: risultato, il 34,5% delle loro posizioni lavorative sono al livello più basso di specializzazione. Quanto al contributo diretto del lavoro degli stranieri in Italia «ha superato i 120 miliardi di euro nel 2015, l’8,7% del Pil complessivo». Nel 1998 era al 2,3%. Di più: secondo Confindustria «la presenza di immigrati ha, negli anni di espansione, (1998-2009) innalzato la crescita cumulata del Pil di 3,9% punti percentuali (dal 10,5% al 14,4%) e negli anni della crisi (2008-2015), limitando la sua discesa di tre punti, (da -10,3% a -7,3%). Certo, il contributo medio di un immigrato alle entrate pubbliche è inferiore a quello di un autoctono, «ma anche la spesa pubblica di cui usufruisce è più contenuta».Diverso il discorso sugli immigrati per ragioni umanitarie, che un importante costo per lo Stato sono nella misura in cui si salva la loro vita in mare: la spesa pubblica per questi soccorsi è passata da 828 milioni di euro nel 2001 a 2,6 miliardi nel 2015. Nel 2016 si stima che sarà di 3,3 miliardi di euro: «Per questo – conclude il Csc – la flessibilità accordata dalla Ue non può essere limitata all’incremento della spesa da un anno all’altro». Tra il 2013 e il 2015 d’altronde le richieste di asilo per i rifugiati sono aumentate di oltre tre volte, passando da una media mensile di 2.200 a quasi 7.000 (sui 13.000 migranti arrivati dal mare).«L’accoglienza e l’integrazione sono le grandi sfide del futuro: se nei prossimi anni non riusciremo a vincere questa sfida vorrà dire che avremo sbagliato la partita e i costi e la conflittualità saranno un problema» è il commento del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia. Che, a margine della presentazione dei dati, ha firmato anche un protocollo con il ministro dell’Interno Angelino Alfano per riavviare iniziative comuni sull’inserimento al lavoro dei rifugiati.
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