giovedì 22 maggio 2014
O la famiglia ricapitalizza o vende il 30%. ArcelorMittal pronta. Ennesimo giorno della verità per lo stabilimento di Taranto.
IL VIDEO Panarelli (Fim-Cisl): «Il governo deve garantire un prestito-ponte»
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Domani sarà l’ennesimo giorno della verità per l’Ilva. I Riva dovranno dire se intendono ricapitalizzare la società, pagando di tasca propria il risanamento imposto dall’Autorizzazione integrata ambientale ma anche il rilancio previsto dal piano industriale, oppure vendere una quota importante alla concorrenza. In lizza al momento ci sono la multinazionale ArcelorMittal e una cordata di imprese italiane, tra cui Marcegaglia e Arvedi. Questo è il percorso imposto dalla legge che ha commissariato il polo siderurgico, accusato di aver inquinato aria ed acqua, provocando in 13 anni la morte di 400 persone secondo i giudici, molte di più secondo i comitati tarantini.Se sulla costituzionalità del provvedimento si discute ancora, così come pare debole l’ipotesi di coprire i primi investimenti con le somme confiscate dalla procura di Milano (1,9 miliardi), i conti dell’Ilva sono fin troppo chiari: le casse sono vuote e secondo il piano industriale del commissario Enrico Bondi servono 4,81 miliardi per adeguare gli impianti alle prescrizioni ministeriali e recuperare il gap tecnologico e commerciale creato da anni di inchieste, sequestri e manette. C’è liquidità solo per i salari e solo per un mese: i fornitori non vengono pagati da tempo e se non interverrà un prestito-ponte, la busta paga di luglio, dalla quale dipendono 11.300 famiglie tarantine, sarà vuota.Insomma, l’aria è più leggera da quando gli altoforni lavorano a basso regime ma in città si respira ugualmente una grande incertezza. La famiglia non vuole rinunciare al sito di Taranto, perno di una società che vale 1/3 del fatturato del Gruppo, e che, pur producendo solo 5,7 milioni di tonnellate fa gola agli altri signori dell’acciaio. Posizioni risuonate nell’assemblea Federacciai di martedì, dove il presidente Antonio Gozzi ha dato il benservito a Bondi con toni che la dicono lunga sull’entità della posta in gioco. Il commissario è stato definito un incompetente («conosce poco la siderurgia») e si è chiesto di coinvolgere nuovamente i Riva nella gestione; la legge Orlando-Zanonato, è stato detto, costituisce «un esproprio senza indennizzo». L’incarico commissariale scade il 4 giugno. Il governo non farà barricate e Giovanni Arvedi ha fatto sapere che al posto di Bondi vedrebbe Piero Nardi, direttore generale di Italsider (e quindi dell’Ilva di Taranto) dal 1987 al 1993.Per ora, tuttavia, l’unica certezza resta proprio il piano industriale di Bondi, che a Claudio Riva sembra non piacere, perché vincola il risanamento a nuove strategie tecnologiche e commerciali. Tra cui la scelta del ferro pre ridotto, che consente di produrre di più con meno combustibile e minori emissioni, ma dipende dal metano e potrebbe riaprire il dossier di un rigassificatore a Taranto, avversato dai più. E poi, meno commercio (nel Dna dei Riva) e più partnership, soprattutto nell’automotive, sviluppando acciai altoresistenziali, rilancio della produzione di tubi, core business dell’Ilva, e altri investimenti nello stabilimento di Genova (zincatura) dove dovrà nascere una linea per la produzione di latta, materiale di cui l’Italia importa ogni anno 700mila tonnellate senza produrne un grammo.La logica seguita da Bondi è quella di riportare la produzione a Taranto a 9,6 milioni di tonnellate dal 2017, nel rispetto dei vincoli ambientali, recuperare le posizioni di mercato compromesse e sfruttare la ripresa della domanda, già agganciata dalla concorrenza europea, la quale ha aumentato i prezzi medi. Sul piano finanziario, però, servono 1,8 miliardi per adempiere entro due anni all’Aia dell’ottobre 2012 (secondo Bondi i lavori sono già a buon punto e hanno prodotto un significativo miglioramento della qualità dell’aria) e altri 635 milioni per le bonifiche "ordinarie", mentre gli altri 1,75 miliardi, che portano il conto finale a 4,185, verrebbero assorbiti dai nuovi investimenti, su cui, appunto, non c’è accordo.
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