domenica 26 settembre 2021
Raghuram Rajan, ex governatore della Reserve Bank of India, al Festival Nazionale dell'Economia Civile ha ricordato la centralità del "terzo pilastro", ragionato di globalizzazione e lavoro di cura
Raghuram Rajan

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«Credo che il miglior modo per finanziarsi in questo momento non sia attraverso le Banche centrali, ma con l’emissione di titoli di Stato a lungo termine. L’attuale eccesso di liquidità è frutto di una monetizzazione del debito a breve, e questo rischia di provocare bolle finanziarie». Da ex governatore della Reserve Bank of India, Raghuram Rajan è capace di analisi penetranti e anche contro corrente in materia di politica monetaria. Lo abbiamo incontrato via Streamyard – oggi è professore alla University of Chicago – per un dialogo intitolato "Il terzo pilastro: le comunità in cui viviamo" trasmesso al Festival Nazionale dell’Economia Civile. Ne pubblichiamo una sintesi, partendo dai temi macro-economici.

Se le Banche centrali rischiano di ritrovarsi con le armi spuntate e sono alle prese con il cosiddetto 'tapering', la riduzione degli stimoli, toccherà allora agli Stati sostenere l’economia con la leva fiscale?

Quello che penso è che serva una spesa pubblica con un alto tasso di ritorno dell’investimento. Ed è qui che sono in disaccordo con l’idea di uno stimolo di stampo pseudokeynesiano, del tipo 'far scavare delle buche e farle riempire': è una spesa pubblica a ritorno negativo. Ovviamente nessun governo fa esattamente questo, ma penso che il Recovery Fund europeo abbia trovato la giusta chiave: finanziare riforme strutturali e investimenti che possano trasformarsi in una crescita sul lungo periodo. Ciò che farà sempre più la differenza sarà garantire fondi alle comunità svantaggiate, ma fornendo loro i giusti incentivi per spenderli in modo efficiente. Altrimenti sarà un terribile spreco, dato che lasceremo un debito più alto per le prossime generazioni.

Il Papa ha suggerito ai giovani di The economy of Francesco che ai problemi globali si risponde con gesti comunitari. Qual è il ruolo della comunità, il "terzo pilastro", con Stato e mercato, nel contesto post pandemia?

Quello che abbiamo visto manifestarsi negli ultimi anni sotto le vesti del populismo o del rifiuto della scienza sia parte dell’ansia della gente causata dall’avvizzimento della comunità.

Per quale ragione?

In parte perché molte aree periferiche, fuori dalle grandi città, hanno perso attività economiche. A volte perché le grandi fabbriche hanno chiuso e sono andate altrove. A volte perché i lavori della classe media hanno subito l’automatizzazione. Quindi uno dei problemi in molte comunità è l’assenza di attività economiche stabili. Il secondo problema è che lo Stato è diventato sempre più protagonista.

Questo "ritorno dello Stato" è un trend strutturale o una risposta temporanea all’emergenza?

Il fenomeno aumenterà ancora, dato che con l’aumentare dei fondi a disposizione, lo Stato si assicurerà anche maggior potere. Da dove viene questo potere? Viene dalle amministrazioni regionali e dalle amministrazioni locali, che infatti ne hanno sempre di meno, perché il potere centrale ne ha preso larghe parti. E spesso neanche il centro dello Stato nazionale mantiene il controllo su questo potere, ma viene affidato a istituzioni sovranazionali o direttamente al mercato nel caso dei colossi tecnologici o della finanza. Questo genera molta ansia. Credo che la soluzione sia rianimare la comunità, investendo nella ricostruzione delle istituzioni locali fondamentali, scuola e sistema sanitario.

Quando qualcuno fa una proposta del genere, le persone immediatamente commentano: "Ci abbiamo provato così tante volte, abbiamo speso così tanti fondi in Italia". Soprattutto al Sud e con pochissimi risultati.

Certamente ci sono stati molti tentativi falliti atti a rianimare la comunità, ma ora abbiamo migliori, strumenti per provarci e in modi più efficaci. Abbiamo delle tecnologie che ci permettono sia un controllo dall’alto al basso sia dal basso verso l’alto. Le persone possono monitorare i propri rappresentanti. Conoscere quali fondi hanno a disposizione e come questi vengono spesi. Questo offre un’opportunità, senza necessariamente assicurarla, ad alcune di queste comunità svantaggiate di rialzarsi grazie agli sforzi delle comunità stesse.

Possiamo fare qualche esempio di rinascita comunitaria?

Nel mio libro ("Il terzo pilastro", ndr) parlo di una comunità che aveva altissimi livelli di criminalità: il tasso di omicidi era allo stesso livello di quello del fronte orientale durante la Seconda guerra mondiale. Quello che sono riusciti a fare è stato anzitutto trovare il modo di diminuire il numero dei crimini. Una volta diminuiti, tante persone hanno deciso di restare invece che andarsene, sono arrivate nuove imprese, il valore delle proprietà ha ricominciato a salire innescando un circolo virtuoso. E questo ha favorito una ricostruzione e ripresa della comunità.

Qui in Italia si sta sperimentando la co-progettazione, attraverso cui le istituzioni locali, insieme alle organizzazioni profit e non profit, possono costruire nuove politiche di welfare.

L’elemento importante da notare è che i bisogni cambiano da comunità a comunità, e per questo avere membri della popolazione locale a ragionare su quali siano i bisogni più importanti e poi su quali azioni intraprendere può essere la scelta vincente. Servono però leadership, coinvolgimento della comunità e finanziamenti. Mettere insieme tutti questi elementi è il ruolo chiave che un attore esterno può giocare, ma il suo ruolo, nel determinare ciò che avviene, non può essere quello principale, né duraturo nel tempo, altrimenti potrebbe imporre troppo la sua impronta e questo vorrebbe dire che l’azione non serve i bisogni della comunità locale.

Rajan, la pandemia ha aumentato le disuguaglianze? Quello che la pandemia ha fatto è stato solo evidenziare delle linee di faglia preesistenti: la scomparsa dei lavori a medio reddito, ad esempio, in parte per colpa dell’automazione e in parte per colpa della competizione sui mercati globali. Proliferano invece i lavori a basso reddito, nonostante siano rischiosi. Una tendenza, temo, destinata a rinforzarsi nei prossimi anni.

Finanza e tecnologia guidano la globalizzazione, la accelerano e la plasmano. C’è ancora spazio per un’economia e una finanza locali? Penso ad esempio alle banche del territorio.

Secondo me c’è spazio. La tecnologia non può prendere il posto delle relazioni. Le relazioni sono spesso l’olio che favorisce il movimento della ruota dell’economia. Posso utilizzare tutta la tecnologia che voglio, ma se penso di non sapere abbastanza di te da fidarmi di te, allora non lo farò. Per questo non sottovaluterei il valore delle relazioni personali e del ruolo della comunità nel finanziamento delle imprese attraverso il credito cooperativo. Ricordo che in un quartiere di Chicago la banca di comunità stava per crollare dopo la crisi finanziaria globale, a causa di un alto numero di prestiti insolvibili che aveva contratto. Il problema era che se qualcuno da fuori avesse deciso di coprire i debiti, non sarebbero stati ripagati e i mutuatari sfrattati. Le case si sarebbero svuotate, con tanti appartamenti sfitti il valore degli immobili nella zona sarebbe crollato e i crimini sarebbero risaliti. Ma la comunità, insieme con alcuni filantropi, ha effettivamente comprato la 'sua' banca. E non appena la banca ha iniziato a lavorare con i debitori, ha dato più tempo per ripagare, molti di questi mutui sono stati infine onorati e ovviamente il valore degli immobili si è preservato tanto che, alla fine, la comunità ha doppiamente beneficiato dell’investimento.

Potremo avere una ripresa basata anche sul lavoro? E quale sarà il ruolo dei 'lavoratori della cura' nella ripresa?

Uno dei grandi problemi nel mondo è oggi la solitudine. Un problema economico e sociale. Sempre più persone diventano anziane e spesso non si sposano mai, non hanno figli o a volte divorziano. Questo problema non può essere risolto dalle macchine. Abbiamo bisogno di persone in carne e ossa che si prendano cura l’una dell’altra: è uno degli esempi di mestieri per cui ci sarà maggiore domanda. Sicuramente potremmo svolgerlo in modo più tecnologico e intelligente, con una persona che attraverso la Rete ne sente sette o otto ogni giorno, per sapere se stanno bene, e poi magari fargli visita una volta a settimana. I lavori di cura, pertanto, non smetteranno di esistere e anzi ne vedremo sempre di più, perché aumenteranno i bisogni ai quali solo una persona può rispondere.

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