martedì 3 febbraio 2015
​Letizia Moratti: il Bes, Benessere e quo e solidale, guidi l'agenda politica. Magari semplificando un po' gli indicatori.
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«Il benessere di una nazione è costituito da tanti fattori. I dati economici, da soli, non sono sufficienti. Anzi, a volte possono rivelarsi persino fuorvianti». Letizia Moratti, cofondatrice della comunità di San Patrignano, aderisce con convinzione alla proposta di mandare in pensione il Pil. L’indicatore «mostra oggi dei limiti enormi», è tempo, dunque, di sostituirlo con uno più adeguato a dar conto dell’effettiva ricchezza di un Paese. «Il Bes? Il Benessere equo e sostenibile sarebbe uno strumento ideale, magari con qualche semplificazione rispetto a come è strutturato attualmente». Dopo aver vissuto esperienze di primissimo piano in campo istituzionale e politico – è stata presidente della Rai, ministro dell’Istruzione e sindaco di Milano –, adesso Moratti è impegnata nella grande sfida di sviluppare strumenti di finanza sociale a livello europeo, trovando una sintesi tra le esperienze portate avanti a livello locale. «In Italia, così come in Europa, è ormai indispensabile apportare un cambiamento che sia anzitutto culturale – sostiene –. La deflazione, la mancanza di crescita e i tassi di disoccupazione da brivido, dimostrano che il modello economico dominante negli ultimi anni si è rivelato fallimentare. E il superamento del Pil sarebbe un primo passo fondamentale per la svolta, ormai, non più rinviabile». Il Pil è diventato semplicemente un 'metro' non esaustivo, oppure va considerato anche un indice fuorviante? Il Pil è insufficiente e ingannevole. La decisione dell’Eurostat di includere nel calcolo alcune attività illecite quali il traffico di droga, la prostituzione e il contrabbando è sciagurata, insensata e dannosa. Non soltanto sotto l’aspetto etico. Come ha sottolineato recentemente anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, la criminalità crea un effetto negativo sugli investimenti in generale e su quelli dall’estero in particolare. Del resto, è stato calcolato che a causa delle attività criminali, tra il 2006 e il 2012, l’Italia ha perso ben 16 miliardi di euro di mancati investimenti degli altri Paesi. Il poter contare su meno risorse, ovviamente, ci impedisce di agganciare il treno della crescita e ha conseguenze negative sul mercato del lavoro. Tutto ciò che è illegale, inoltre, rappresenta un ostacolo alla creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo dell’attività d’impresa. Quindi anche le scelte di politica interna ed europea vengono indirizzate utilizzando come riferimento un parametro 'dopato' e inopportuno? Sembra assurdo eppure è proprio quello che avviene. Le regole del Patto di stabilità e crescita si basano anzitutto sul Pil in rapporto al debito e al deficit degli Stati. Non si possono ignorare alcuni elementi fondamentali per la vita dei cittadini italiani ed europei: dalla formazione all’ambiente, dai servizi sociali alla qualità nella vita nel suo insieme. Questi sono temi che vanno affrontati in modo serio e approfondito. Che cosa comporta l’inserimento solo parziale del volontariato nel calcolo del Pil? Purtroppo, soprattutto per un Paese come il nostro, dove questo 'mondo' rappresenta un asse portante per garantire la tenuta sociale, si tratta di una scelta difficilmente comprensibile e anche un po’ ingiusta. Basti pensare che, se ci fosse un inserimento completo delle attività svolte in Italia da 4 milioni e 700mila volontari, ci potrebbe essere una contribuzione al Pil pari a circa 20 miliardi di euro. Come si può andare concretamente oltre il Pil? Questo tema va collocato in cima all’agenda italiana ed europea. Il Bes può rappresentare un’ottima base di partenza, ma va attuata una semplificazione degli indicatori – che oggi sono più di cento – per rendere meno complesso il meccanismo di calcolo. Ci sono, inoltre, tante iniziative che necessitano di essere messe a sistema. Perché va trovata una sintesi anche tra i progetti e gli spunti avanzati da singoli Paesi o organizzazioni internazionali. Quali sono i principali? Il Parlamento tedesco, ad esempio, già nel 2013 ha affiancato al Pil un modello economico alternativo con dieci parametri e tre macro dimensioni: parte economica (Pil, distribuzione del reddito e debito pubblico); parte ecologica (effetto serra, ossidi di azoto e biodiversità); parte sociale (occupazione, educazione, salute e libertà). Inoltre, con il Movimento dell’economia positiva abbiamo proposto l’idea di classificare gli Stati utilizzando 'un indice di positività' che si basa su 29 fattori di valutazione in cui si tiene conto di aspetti (economici, sociali, culturali, ambientali e di governance). Questi sono solo due esempi. Ma le iniziative sono tante, ecco perché credo siano maturi i tempi per cambiare la direzione prima ancora che la marcia. Non va sottovalutato neanche il segnale che sta emergendo in campo formativo, con l’aumento di corsi e master universitari in cui si studiano modelli economici e sociali alternativi a quello che ha dominato la scena negli ultimi anni. L’Italia quale ruolo può giocare in questa sfida del cambiamento? Dal nostro Paese – che ha terminato da poco il proprio turno di presidenza Ue, mettendo giustamente al centro il tema della crescita –, può arrivare la spinta decisiva. Credo che spetti al governo italiano (in particolare al premier Renzi e al ministro Padoan) il compito di lanciare la proposta di superamento del Pil. Quali potrebbero essere gli ostacoli più duri da superare? Il principale ostacolo potrebbero rappresentarlo i burocrati europei. Ma anche loro devono capire che non c’è un solo motivo valido per mantenere in campo questo Pil, che è diventato il 'simbolo' di un modello economico disastroso. Se si vuole costruire una società più sostenibile e con un welfare efficiente, serve un’impostazione economica in cui i parametri di misurazione vadano oltre la creazione di ricchezza a livello di macro indicatori.
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