mercoledì 28 luglio 2010
Tenta l’esperimento la società editoriale che realizza il settimanale di riferimento del Terzo settore, il portale Vita.it e controlla un ramo di consulenza. Sarà la prima a Piazza Affari a non dare dividendi. Ma non si tratta di una Onlus e ciò ha acceso un animato dibattito nel suo mondo di riferimento.
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C’è vita in Borsa. E il suo valore è sociale. Nella stagione della crisi finanziaria e nel deserto delle quotazioni, con premiate aziende «for profit» che rinviano lo sbarco in Piazza Affari nel timore delle turbolenze, ecco a tentare la prova del mercato una realtà del mondo «non profit». È Vita spa, il gruppo editoriale che edita il settimanale di riferimento del Terzo settore italiano e il portale Vita.it, e che controlla una società di consulenza, Vita Consulting, specializzata nell’economia sociale.L’offerta pubblica per l’approdo in Piazza Affari, al segmento Aim delle piccole imprese, è prevista entro i primi di settembre e parlare di svolta non è azzardato. Una rivoluzione: per la finanza, che mai prima d’ora si era trovata a dover dividere la piazza con una società che non dà dividendi; e per l’universo non profit, che con le logiche del mercato aperto ha in genere poco feeling. Presieduta dal fondatore Riccardo Bonacina e guidata dall’a.d. Paolo Migliavacca, Vita non è una vera non profit, una Onlus, e nemmeno un’impresa sociale, viene fatto notare. Ha però il 50,2% del capitale in mano a enti non profit e, soprattutto, si è data il vincolo di non distribuire utili. Un controsenso o l’inizio di una nuova era? La sfida c’è tutta. E il dibattito è aperto.L’economista d’impresa Marco Vitale, ad esempio, ammette di aver nutrito qualche dubbio: «All’inizio avevo molte perplessità, ma visto il progetto mi sono convinto in pieno. È una mossa coraggiosa che apre una strada nuova. La Borsa unisce risparmio e attività creatrici di valore. Il Terzo settore può essere creatore di valori importanti e il suo peso è destinato a crescere. L’assenza di dividendi monetari? Stimolo e garanzia di una gestione ancora più rigorosa».Il perché della Borsa è molto semplice, come spiega Bonacina. «Il nuovo piano triennale prevede il raddoppio dei ricavi a 8 milioni, il rafforzamento delle attività Internet e consulenza, investimenti, acquisizioni all’estero. Avevamo bisogno di mezzi freschi in tempi brevi e abbiamo preferito andare sul mercato piuttosto che rivolgerci a una banca. Meno dipendenza e più trasparenza».Un passaggio dalla forte carica simbolica. Vita nasce in una stagione speciale per il non profit, nel 1994, lo stesso anno durante il quale si formano il Forum del Terzo Settore e il comitato promotore della Banca Etica. Una fase di vitalità e di affermazione per l’economia sociale, seguita da un periodo di consolidamento. Ma il grande salto, forse, deve ancora essere fatto. Che sia la volta buona?«È un bene che Vita decida di non chiedere soldi a una banca, ma alla gente in Borsa – sostiene Valerio Melandri, docente a Forlì, consulente e guru nazionale della raccolta fondi –. Il passaggio nel mercato è importante dal punto di vista educativo, perché il non profit italiano deve ancora sviluppare una vera mentalità imprenditoriale. Può aprirsi una fase nuova».Non ha dubbi nemmeno Giorgio Fiorentini, riferimento in Bocconi per i manager delle imprese sociali, felice di «sfatare l’idea che il non profit debba stare alla larga dal mercato perché il denaro è lo sterco del demonio». «Non si deve più ragionare in una logica di sofferenza, al ribasso – aggiunge –; è l’ora di entrare in una dimensione di positività, dove il valore è inteso anche in senso economico». E l’assenza di dividendi per gli azionisti? «Se l’impresa fa crescere il suo valore, l’interesse a possedere le azioni c’è tutto».Chiaro che il titolo sarà opzionato da investitori istituzionali e fondazioni. Ma che un problema culturale ci sia, è certo. Sul pianeta dell’economia sociale le anime critiche sono molte. Giovanni Acquati, uno dei leader storici delle Mutue di Autogestione e tra i padri della finanza etica italiana, è da sempre «contrario all’idea di Borsa e al modello di crescita basato sul guadagno finanziario». «L’economia sociale – argomenta provocatoriamente – deve uscire dai meccanismi di mercato. Vita non dà dividendo? E allora perché va in Borsa?».Ha condiviso in pieno la svolta il presidente delle Acli, Andrea Olivero, entrato anche nel cda di Vita, dove siedono tra gli altri Andrea Agnelli, l’imprenditore Vincenzo Manes, il sociologo Aldo Bonomi. «La crisi economica ha dimostrato che le nostre intuizioni erano valide, perfettamente in linea con quello che il mercato avrebbe dovuto essere e invece non era – spiega Olivero –. Idee che ora dobbiamo stabilizzare per cambiare la realtà, uscire dalla dimensione della testimonianza e diventare protagonisti del cambiamento». Visione pragmatica e prospettica. Come da tradizione. Le Acli sono già state il motore propulsivo di esperienze importanti come la Banca Etica o lo stesso Forum del Terzo Settore.«La quotazione di Vita rimuove un tabù – aggiunge Olivero –. Per anni abbiamo sostenuto la necessità di trovare un modo per governare l’economia e i suoi strumenti, usandoli per perseguire i nostri obiettivi, costruire un nuovo modello economico e iniziare una buona contaminazione tra profit e non profit. Non si tratta più solo di fare del bene, ma di trovare un modello che resista per tutti, con soggetti profit e non profit capaci di avanzare gli uni accanto agli altri, mantenendo le rispettive identità».Spunti per compiere nuovi passi ci sono. A partire dal progetto di una Borsa tutta sociale. «Giusto uscire dalle nicchie – suggerisce Edo Patriarca, già presidente del Forum e ora segretario del Comitato scientifico organizzatore delle Settimane sociali –. Anche San Paolo andò a Roma perché lì era il centro del potere economico. L’auspicio è che le imprese sociali sappiano anche interferire e modificare le logiche del mercato». Niente steccati, insomma. Perché la scelta, d’ora in avanti, non potrà più essere tra la Borsa... o la Vita.
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