venerdì 30 maggio 2014
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​Recuperare il terreno perduto non sarà facile. Nel giorno in cui l’industria italiana torna sotto i riflettori per l’apertura di credito (condizionata) offerta da Squinzi al governo, è necessario rimettere insieme le tessere del puzzle Italia per capire cosa è rimasto della nostra manifattura, e non solo. Il giusto orgoglio sbandierato da imprese e politici per aver mantenuto negli anni della Grande Crisi livelli di leadership europei (siamo secondi solo alla Germania) non può nascondere come il disegno complessivo sia cambiato. L’avanzata del deserto industriale è stata fermata, ma per una nuova fioritura servirà tempo.Da Pordenone a Bari«Finora abbiamo puntato su strategie di resistenza, senza affrontare in modo strutturale il problema di modelli innovativi di sviluppo» commenta Cesare Pozzi, docente di Economia dell’impresa alla Luiss di Roma. Alla difesa obbligata delle nostre fabbriche (molte delle quali hanno comunque chiuso) non si è ancora accompagnato un piano d’attacco completo, per spingere gli investitori a scommettere su idee industriali dal futuro sicuro. Nella conferenza stampa seguita al successo delle Europee, Matteo Renzi ha citato i casi di Electrolux e Merck Serono come paradigmi possibili. Salvaguardare produzioni e posti di lavoro dalle derive di un modello "polacco" è stata la chiave che ha convinto Pordenone e tutto il territorio a sancire una grande alleanza contro la spietata concorrenza asiatica, dimostrando che mesi di battaglie sindacali possono far cambiare idea a multinazionali tentate dall’addio all’Italia. Dal Friuli alla Puglia, il percorso rimane però lungo e accidentato. A Bari partirà una nuova linea di produzione nel settore farmaceutico grazie a una partnership tra il colosso tedesco-elvetico e la Regione Puglia, con 50 milioni stanziati per il territorio, eppure la capacità attrattiva dell’Italia dal punto di vista industriale sembra non essersi ancora del tutto espressa. «La crisi può diventare una grande opportunità – continua Pozzi – a patto che si comprendano gli errori del passato. L’impressione è che si stia ancora tentando di rallentare i processi di deindustrializzazione, ammorbidendo il più possibile i costi sociali delle ristrutturazioni in corso». Lo scheletro nell’armadio che gli ultimi governi si stanno trascinando dietro, di anno in anno, è infatti il colossale numero di vertenze aziendali aperte al ministero dello Sviluppo economico: 155 in tutto. Piani da risolvere o da sbloccare, com’è accaduto recentemente con la Lucchini di Piombino, senza però sciogliere tutti i nodi aperti.La scommessa sui poli specializzatiI segnali positivi non mancano, compreso un certo risveglio del settore pubblico. L’intesa da 400 milioni tra Ansaldo Energia e i cinesi di Shanghai Electric, con la regia di Cassa depositi e prestiti, porterà a benefici anche per le comunità locali, mentre Fincantieri ha ottenuto una maxi-commessa grazie a un accordo con Msc Crociere. «L’Italia è piena di competenze e anche di capitali privati che possono essere investiti per uscire dall’emergenza» osserva Pozzi. In questi anni, hanno accelerato soprattutto aziende del made in Italy, del comparto dei beni strumentali, dell’alimentare e della farmaceutica, abili nel crescere in particolare all’estero.Per il resto, le risposte obbligate alla domanda di sviluppo e di crescita arrivano dalla creazione di alcuni poli specializzati. È di due giorni fa l’annuncio di un piano per gli autobus, che dovrebbe portare alla (ri)nascita di un’intera filiera in cui confluiranno i lavoratori di Irisbus, Breda Menarini Bus e la cinese King Long Italia. A Termini Imerese sarà un gruppo di ingegneri dell’Alfa Romeo a studiare la realizzazione di un’auto ibrida, a Taranto l’intricatissima matassa dell’Ilva non sarà sciolta senza un progetto di riqualificazione dell’intera zona (non si è ancora capito a carico di chi). Le proposte dal basso non mancano, come dimostra quanto accaduto ieri nel Vimercatese, in Lombardia, dove i sindacati hanno chiesto piani di reindustrializzazione per quella che una volta era la Brianza Valley, il distretto tecnologico lombardo.
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