giovedì 5 marzo 2020
Dal 19 marzo in libreria la nuova opera dell’economista austriaco Christian Felber, fondatore del movimento internazionale dell’Economia del Bene Comune
Il commercio etico per una nuova economia globale
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Tra libero mercato e protezionismo, può esistere una terza via? È quello che pensa e propone Christian Felber nel suo nuovo libro Si può fare! Per una nuova economia globale fondata sul commercio etico (Aboca Edizioni, 264 pagine, 20 euro). L’economista austriaco conduce un’analisi spietata dell’attuale politica commerciale internazionale. Accademico, fondatore in Austria dell’Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per l’aiuto ai cittadini (Attac) e ideatore del movimento internazionale dell’Economia del Bene Comune, Felber esplicita in termini chiari e documentati la propria critica al sistema capitalistico, alla “religione del libero commercio” e allo stesso tempo sostiene la poca efficacia di una politica protezionistica. Ma come è chiarificato fin dal titolo, ottimista e squillante, Felber non si limita affatto alla pars destruens. Un nuovo modo di perseguire lo sviluppo e il benessere c’è, e in questo libro l’autore propone un cambio di paradigma: il passaggio dal libero mercato al commercio etico. Secondo Felber il fine delle relazioni economiche è, o dovrebbe essere, una piena attuazione dei diritti umani, uno sviluppo sostenibile, una buona vita per tutti. Il commercio è un mezzo, non un fine. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questa visione è quanto di più distante dagli effetti prodotti dalle dottrine economiche dominanti. Felber ripercorre allora le tappe fondamentali dei capisaldi teorici del libero commercio, partendo da Adam Smith e David Ricardo, illustrandone le falle concettuali e sottolineando la distanza tra ambizioni e risultati concreti. Mostrando cioè come le attuali regole del gioco non possano in alcun modo soddisfare il crescente bisogno di giustizia e benessere. Felber indaga le disuguaglianze create da Wto, corporation transnazionali e accordi politico-economici che nel nome della libertà del commercio favoriscono la creazione di ricchezza, relegandola però nelle mani di pochi soggetti.

Secondo Felber un nuovo corso economico coincide con una “alternativa procedurale”, ovvero una nuova centralità delle istituzioni democratiche, oggi fin troppo vincolate e subalterne alle grandi organizzazioni economiche. Una rinuncia agli attuali trattati internazionali – su tutti il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) e il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) – l’accettazione dell’Onu come sede del diritto economico internazionale, e la promozione di una Zona di commercio etico delle Nazioni Unite. Un patto tra Stati che decidono di mettere al centro i diritti, la sostenibilità ambientale, la cura delle risorse naturali e principi di solidarietà ed equità. Felber prevede la portata del nuovo corso: gli Stati che rispettano i diritti umani, i diritti dei lavoratori e tutti gli altri accordi dell’Onu, potrebbero commerciare più liberamente tra loro, neutralizzando il dumping in ogni ambito e proteggendosi da quanti lo praticano. L’ingresso alla Zona di commercio etico, inoltre, potrebbe dipendere dai risultati di un bilancio del bene comune che deve essere universale (deve cioè tenere conto di tutti i valori fondamentali), quantificabile, confrontabile, pubblico, comprensibile per la collettività e facilmente vincolabile a conseguenze legali. Si può fare! è un saggio provocatorio, carico di fervore e lungimiranza, in cui Felber ci dimostra che una nuova economia globale fondata sul commercio etico è davvero possibile. Il libero commercio favorisce la crescita dei Paesi in via di sviluppo? Per Felber il libero commercio fa sì che i Paesi con un basso livello di sviluppo arretrino ulteriormente. È il caso di molti Stati del Sud dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina: tra il 1960 e il 1962 il reddito pro capite dei 20 Paesi più ricchi era 54 volte più alto di quello dei 20 Paesi più poveri; tra il 2000 e il 2002 era già di 122 volte più alto. Il gruppo dei Paesi meno sviluppati è raddoppiato dall’inizio della sua definizione 50 anni fa, passando da 25 a 48 membri. Stando a quanto riporta Felber, il libero commercio ha messo in crisi la produzione industriale di numerosi Paesi: «L’Argentina ci ha rimesso la sua industria meccanica, nella Costa d’Avorio sono collassate l’industria chimica, delle calzature e delle componenti automobilistiche. In Kenya i posti di lavoro nel settore tessile si sono ridotti da 120mila a 85mila». E l’agricoltura? I piccoli possidenti vengono spazzati via: in Messico, dopo l’adesione al Nafta (North American Free Trade Agreement), 1,3 milioni di agricoltori hanno abbandonato l’attività. In Kenya la produzione di cotone è calata da 70mila a 20mila balle. In Senegal la produzione di pomodori è scesa da 73mila a 20mila tonnellate.

Nel 1990 la Unctad (United Nation Conference on Trade and Development – Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) registrava 35mila Tnc (Transnational Corporations), nel 2008 erano 82mila. Nell’insieme le multinazionali dominano due terzi del commercio mondiale. Tra il 1990 e il 2009 ci sono state 2.200 fusioni. Questo processo, sostiene Felber, ha contribuito a creare degli oligopoli capaci di indirizzare fortemente le politiche economiche internazionali. Nel 2007 le dieci maggiori aziende a livello mondiale nel settore dell’industria alimentare, biotecnologica e agrochimica controllavano il 55% del mercato farmaceutico, il 66% di quello delle biotecnologie, il 67% del mercato privato delle sementi. Le multinazionali hanno inoltre sempre maggiore potere negoziale nei confronti degli Stati: molti dei 3.400 accordi bilaterali per la protezione degli investimenti prevedono il diritto da parte delle imprese investitrici di intentare cause dirette contro gli Stati (Isds). L’85% di tutte le cause legali è intentato da Paesi industrializzati, e 3/4 sono dirette contro Paesi in via di sviluppo. Alla fine del 2016 il 26,4% dei procedimenti era stato risolto a favore dei grandi gruppi multinazionali, mentre il 25,7% era sfociato in un accordo. Pertanto, oltre il 50% del totale dei procedimenti ha portato a dei benefici per le multinazionali.






















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