mercoledì 12 settembre 2018
Pietro Ichino commenta la proposta di Di Maio e critica gli interventi legislativi estemporanei e senza alcuna strategia di riforma unitaria
Il giuslavorista Pietro Ichino

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La semplificazione delle leggi sul lavoro è diventata una priorità. «A settembre avvieremo il Codice del lavoro, aboliamo 140 leggi incomprensibili sul lavoro e le riuniamo in un solo Codice – così ha annunciato il ministro Luigi Di Maio –. E a fine mese emaniamo, attraverso un decreto, un pacchetto semplificazione che riguarderà anche il Codice degli appalti».

Le dichiarazioni del titolare del ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico hanno sollecitato il dibattito tra gli esperti del settore. «Col termine semplificazione – ha spiegato il giuslavorista Pietro Ichino – si possono indicare almeno due cose, notevolmente diverse tra loro: una cosa è la maggiore semplicità, chiarezza, facilità di lettura del testo legislativo, una cosa diversa è la semplificazione del contenuto dispositivo della legge, delle figure negoziali che essa istituisce, dei comportamenti che essa prescrive, degli adempimenti burocratici che essa impone. Entrambe le cose sono molto utili per togliere sabbia dall’ingranaggio del mercato del lavoro; ma se si vogliono fare le cose bene è importante chiarire quale delle due si intende perseguire, o se si intende perseguirle entrambe».

Il professore Ichino, con un passato da sindacalista e da parlamentare, ora è tornato a insegnare diritto del lavoro all’Università Statale di Milano. Con la sua proposta del Codice semplificato del lavoro della scorsa legislatura e della precedente aveva già provato a fare chiarezza. Con la riforma del 2015 si sono fatti alcuni importanti passi avanti. In particolare, i decreti legislativi n. 23 e n. 81 si avvicinano molto al modello del Codice semplificato. Per Ichino, tuttavia, non occorre «una riduzione del numero dei tipi contrattuali, ma una semplificazione dei testi legislativi e una semplificazione dei loro contenuti dispositivi». Nonostante le riforme del lavoro che si sono succedute negli ultimi 20 anni siano un po’ troppe e rischino di confondere le idee agli operatori economici, soprattutto a quelli che vengono da fuori, il professore ne sottolinea l’importanza: «Se si riferisce alla legge Treu del 1997, alla Biagi del 2003, alla Fornero del 2012, o alla riforma del 2015, le rispondo che sono leggi che si collocano tutte sostanzialmente sulla stessa linea, di una progressiva armonizzazione del nostro diritto del lavoro rispetto ai migliori standard europei. E, con l’eccezione della legge Fornero e di un paio dei decreti emanati nel 2015, sono tutte leggi scritte in modo molto chiaro e ordinato, abbastanza facilmente leggibile. La complicazione dei testi e dei contenuti legislativi nasce altrove».

Ichino punta il dito sullo «stillicidio di interventi legislativi estemporanei, parziali, frutto di compromessi parlamentari di basso livello, che non rispondono ad alcuna strategia di riforma unitaria, ma soltanto alle pulsioni dell’opinione pubblica del momento, in relazione ai casi di cronaca, quindi a esigenze politiche epidermiche e mutevoli. Questi interventi si sovrappongono tra di loro, in stratificazioni progressive, dando luogo a dei veri e propri mostri legislativi, sia dal punto di vista formale, sia da quello del contenuto». Per esempio? «Provi a leggere uno qualsiasi dei cinque articoli del decreto Dignità in materia di lavoro, appena entrato in vigore: un esempio perfetto di stratificazione disordinata e improvvisata di norme, cioè di come non si dovrebbe legiferare».

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