sabato 8 agosto 2020
Ai proprietari delle piattaforme digitali piace giocare con le parole per nascondere la vera natura del loro business
Il buon Samaritano e la sharing economy
COMMENTA E CONDIVIDI

L'uso strumentale delle parole è una pratica antica. Le parole, che dovrebbero rappresentare la realtà e magari spiegarla, vengono usurpate per camuffare, influenzare o attrarre. La finanza è regina in questa operazione, come vedremo in una prossima puntata di questa rubrica, ma anche la cosiddetta sharing economy non è da meno.Cominciamo proprio dalla parola sharing, con cui le piattaforme come Uber, Airbnb, Blablacar, Foodora e altre si autodefiniscono. Sharing significa condivisione. Bene, allora è utile ricordare il buon samaritano che tagliò il suo mantello in due e lo diede al povero: fece sicuramente un atto di condivisione, la parola qui è veritiera e non produce inganni o dissimulazioni. Se avesse avuto 10 mantelli e li avesse affittati a ore o giornate l’avreste definita condivisione? E’ questo che fanno le piattaforme della economia che si vorrebbe definire sharing ma che va invece chiamata con il suo nome: economia delle risorse dormienti. Risorse (posti auto, camere e case, ore di lavoro) che trovano sbocco grazie ai mercati digitali e producono ricchezza per chi le affitta.Ai proprietari delle piattaforme digitali piace giocare con le parole per nascondere la vera natura del loro business: ad esempio il capo e proprietario di Blablacar Nicolas Brusson ha detto “non ci sentiamo autorizzati a chiudere la piattaforma, che appartiene di fatto ai suoi utenti, una realtà per la nostra Community di 90 milioni di utenti e un team globale di 700 dipendenti” (17 marzo 2020). Peccato che Blablacar sia una société anonyme, l’equivalente di una srl in Italia, una normale società in cui il rischio è sostenuto solo dal capitale immesso e non dalla persona che la possiede, i clienti con la proprietà non c'entrano un bel nulla e i profitti fluiscono tutti nelle tasche del proprietario, non certo in quelle dei clienti, fornitori e dipendenti.Aggiungiamoci Mark Zukerberg che definisce Facebook una community e un grande distributore che riconosce che una comunità è più grande di un supermercato, il che implicherebbe che quest’ultimo è un pezzo di comunità anziché un commerciante che compra e rivende guadagnando.Ora, ridando verità alle parole, comunità vuol dire che se un membro è in difficoltà gli altri lo aiutano. Una cosa che non sembra succedere tra i follower di Facebook o tra i proprietari che affittano su Airbnb o tra autisti e passeggeri di Blablacar. E le cene a casa di estranei organizzate dalle piattaforme digitali sono state definite social eating ma di sociale non hanno niente: si pagano, eccome, anche se sei in difficoltà. Il social eating, casomai, è alla Caritas e nei gruppi di volontariato.Finte condivisioni, finte comunità: ribadire il significato delle parole e il loro legame con la realtà non è un esercizio grammaticale.

* Franco Becchis è direttore scientifico della Turin School of Regulation e dell'Osservatorio sulla regolazione dei mercati digitali


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: