giovedì 9 agosto 2012
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​La crisi compie cinque anni, eppure ancora manca il coraggio di ammettere che il bubbone è scoppiato a causa dell’arroganza della finanza. Detto con semplicità, contrastando l’uso dei termini che paiono studiati per frastornare i non addetti ai lavori della speculazione, la Finanza ha preteso di egemonizzare l’economia reale imperniata sui pilastri di produzione, lavoro, consumi.Il primo segnale d’allarme è datato 8 agosto 2007. In piena stagione di boom borsistico ed euforia consumistica Bnp Paribas sospende nottetempo le quotazioni di alcuni suoi Fondi d’investimento non essendo in grado di garantirne il rimborso. Il colosso francese si giustifica affermando che nei portafogli si trovano «troppi titoli tossici». S’atteggia inoltre a difensore del risparmio, evitando di spiegare per quali ragioni quei "tossici" siano stati emessi e poi trasferiti sulle spalle della clientela. Da quel momento, in ogni angolo del pianeta centinaia di milioni di risparmiatori si rendono conto che i manager delle banche banchettano a loro spese. Inseguendo un folle, megalomane progetto: creare ricchezza facendo circolare sempre più velocemente il denaro. Alla maniera di quegli alchimisti medioevali che pretendevano di avere trovato la formula per trasformare il ferro in oro. Moderni stregoni dunque, i finanzieri. Il guaio è che ancora una volta trovano sostegno fra gli economisti e soprattutto nei governi. A condurre le danze è il governatore della Federal Reserve Usa, Alan Greenspan. Secondo la fallace teoria dello «sviluppo ininterrotto» che pur s’era rivelata fallimentare con la Grande Crisi degli anni 1929-36 sfociata in riarmo e guerre, si pretendeva che una sempre più veloce circolazione del denaro (presto elettronico, quindi immaginario o quasi), avrebbe garantito la moltiplicazione delle ricchezze.I tentativi di mascherare la realtà non possono impedire gli scandali della Lehman (825 miliardi di dollari perduti) e del «buco» da 60 miliardi del finanziere Bernard Madoff. È solo la punta dell’iceberg. Nel vortice vengono financo risucchiate le banche dei leggendari gnomi svizzeri. Gli Istituti italiani non sono da meno, perdenti in Borsa oltre l’80% del valore. In troppi casi, i manager che non avevano né visto né previsto, restano al loro posto, o passano da una poltrona all’altra.Le disinvolture dei banchieri sono state possibili per la complicità degli Stati. Ovvero la scarsa vigilanza, sinonimo appunto di complicità. Come avrebbero potuto contrastare l’andazzo speculativo nel momento in cui gli stessi governi (senza distinzione di colore) si servivano delle banche e dei fondi d’investimento dalle stesse controllate, per emettere a getto continuo obbligazioni pubbliche? Sotto i nostri cieli, Bot, Btp, Cct, indispensabili a finanziare i crescenti deficit statali. Un po’ ovunque la stessa musica, con l’imprenditorialità privata che largamente partecipa al banchetto. Non per investire, ma in un balletto di acquisizioni, intreccio di partecipazioni più nell’interesse dei «soliti noti» che della crescita. Emblematici, i rapporti fra Mediobanca e famiglia Ligresti, le difficoltà della Popolare di Milano e del Monte Paschi di Siena.Se la crisi ha colpito le banche a mo’ di boomerang, non stanno meglio gli Stati cosiddetti «sovrani»: per ottenere l’indispensabile sostegno della Banca centrale europea, dovranno mettersi a stecchetto. Eppure recalcitrano, discettano sulla natura dei loro debiti, come stanno facendo greci, portoghesi, spagnoli ed un po’ anche noi, poiché nonostante gli sforzi governativi, fatichiamo a trovare la perduta crisi di credibilità. I ricchi del Nord, Germania in primis, giudicandoci incalliti dissipatori, usi a spendere più di quel che guadagniamo. Lo scenario ormai a tinte fosche, poiché la recessione è destinata a protrarsi almeno per un’altra annata, impone qualche considerazione. Di natura più etica che strettamente economica: la corsa al consumismo imperniata sul «Pagherò domani, o chissà quando...», ci ha fatto perdere la bussola, deridendo la saggia cultura contadina del «passo mai più lungo della gamba». E finché non recupereremo quei principi, la tempesta difficilmente si placherà. Ma banchieri e politici dell’emisfero capitalista sono disponibili all’autocritica e a un salutare pentimento? Sarebbe auspicabile, se troppi comportamenti non fossero di opposto segno.
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