martedì 24 gennaio 2017
Solo tra qualche giorno comprenderemo, forse, la natura dell’operazione Generali: se è stata effettivamente progettata e se è un'operazione industriale, finanziaria o difensiva del sistema.
I destini del Leone
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Forse conosceremo tra alcuni giorni gli sviluppi e l’inquadramento della vicenda delle Generali tra le possibili mire, più o meno assecondate, di Axa e di Allianz, qualche ulteriore possibile dismissione riconducibile magari all’assecondamento di tali mire – come sarebbe il caso, a volte però smentito, di una possibile vendita di Generali France – e gli intenti veri di Intesa-S.Paolo. E comprenderemo soprattutto, forse, la natura dell’operazione: se questa sia stata effettivamente progettata, tra industriale, finanziaria o prevalentemente difensiva del sistema. C’è, in ogni caso, bisogno di chiarezza. E poiché non si può trascurare che contemporaneamente viene decisa l’estromissione del direttore generale, Alberto Minali – un personaggio particolarmente competente e rigoroso – si tratta di verificare se tra le operazioni di cui si parla, per ora senza oggettivi tangibili presupposti, e l’uscita di Minali sussistano collegamenti. Cominciando da quest’ultimo punto, sarebbe doveroso che la Consob, come ha fatto per altri avvicendamenti, imponesse alle Generali di fornire le necessarie informazioni al mercato: già si è tardato troppo. La prosecuzione dell’inerzia sarebbe intollerabile.
Poi i chiarimenti dovranno venire dagli altri eventuali attori della vicenda. L’acquisto dei diritti sul 3% di Intesa, da parte delle Generali, testimonia del timore che la banca possa rastrellare azioni della compagnia per entrare nell’assetto proprietario con una posizione di rilievo: di qui la barriera frapposta che impedisce le partecipazioni incrociate e che potrebbe costringere un potenziale partecipante a lanciare un’Opa oltre il 60%. Ma la difesa potrebbe avere il fiato corto proprio per quest’ultima possibilità. D’altro canto, se posto ma non concesso, Intesa avesse un effettivo interesse a entrare nella compagine proprietaria della Compagnia, non sarebbe di certo una iniziativa disprezzabile, al di là comunque dell’osservanza dei limiti alle partecipazioni nei rapporti tra banche e assicurazioni. La forza di Intesa sarebbe garanzia della stabilità e del mantenimento in Italia del radicamento dell’impresa assicurativa, ben potendo il primo istituto di credito esercitare un ruolo di gran lunga superiore a quello di Mediobanca, che qualche giornale dichiara essere stata colta di sorpresa, probabilmente forse senza percepire che un tale stato sarebbe una constatazione negativa, piuttosto che una condizione di terzietà. Generali, la perla come Enrico Cuccia la definiva, il polmone della respirazione di Mediobanca non può continuare a vivere nell’ultradecennale timore di un pur opportuno o necessario aumento di capitale, vendendo, come ha fatto finora, tutto il vendibile; né con costante periodicità si possono prefigurare, fondati o no che siano, progetti di attacco da parte di altre assicurazioni e intermediari e riscoprire poi l’italianità da parte di quegli stessi che la hanno prima negata. Cuccia ricordava il «titolo quinto, chi ha i soldi ha vinto». Oggi vale anche per Mediobanca. Certamente Generali sono un patrimonio anche del Paese, ma l’intervento pubblico non può sostituire gli oneri che i privati devono assumere, essendo finita l’era dei salotti buoni e delle costruzioni societarie piramidali. La vicenda suona, insomma, fortemente la sveglia per gli azionisti del Leone.

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