sabato 26 ottobre 2019
Le obbligazioni rivolte a chi ha lasciato il proprio Paese possono finanziare progetti di infrastrutture e di sviluppo dell’economia in patria. Esistono da decenni, l’Asia le sta riscoprendo
Grazie ai bond della diaspora gli emigrati aiutano chi rimane
COMMENTA E CONDIVIDI

Raccogliere denaro tra i propri emigrati per finanziare progetti che spingono la crescita economica e lo sviluppo nei Paesi di origine. L’idea alla base dei 'diaspora bond' è sicuramente affascinante. Lo strumento non è nuovo. Israele ha aperto la strada, emettendo già dal 1951 obbligazioni finalizzate a finanziare progetti di sviluppo facendo leva sul patriottismo dei suoi espatriati. L’India ne ha seguito l’esempio, raccogliendo 32 miliardi di dollari con tre emissioni di 'diaspora bond' nel 1991, 1998 e 2000. Negli ultimi anni questo tipo di soluzione ha ritrovato in Asia una nuova popolarità, con i governi che si rivolgono ai loro emigrati per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo delle imprese. Il Pakistan a gennaio ha lanciato i Pakistan Banao Certificates, diaspora bond con i quali conta di raccogliere un miliardo di dollari. Ma l’accoglienza da parte dei pakistani è stata tiepida (in mancanza di dati ufficiali, si parla di 34 milioni di raccolta in nove mesi). L’Indonesia sta pensando di fare lo stesso. Il Paese conta su otto milioni di emigrati e ha ampie necessità di investire in infrastrutture e sviluppo. Emettere un diaspora bond aiuterebbe il governo a raggiungere anche un altro obiettivo, quello di svincolarsi dal controllo straniero di buona parte delle obbligazioni pubbliche (il 39% di quelle denominate in rupie e il 97% di quelle in valuta straniera emesse ogni anno) che rende l’arcipelago maggiormente a rischio davanti a crisi internazionali. Il governo raccoglie attualmente circa 10 miliardi di dollari vendendo buoni e certificati finanziari islamici denominati in dollari, euro e yen, e vede ampie possibilità di crescita dell’interesse dei suoi cittadini, coinvolgendo gli emigrati con proposte specifiche denominate in dollari o rupie indonesiane.

Con questa misura, oltre che con il taglio annunciato dal 15 al cinque per della tassazione sui guadagni da obbligazioni finalizzate a finanziare lo sviluppo, le autorità di Giacarta puntano a arrivare agli obiettivi di finanziamen-to del sistema pubblico (53,25 miliardi di euro per l’anno in corso), allentando la dipendenza dall’estero. Anche in Africa si assiste a un risveglio di questi strumenti. A dieci anni dall’ultima emissio- ne di obbligazioni legate alla diaspora, gli Eepco Millennium Corporate Bond dell’Etiopia, la Banque de l’habitat du Sénégal ha lanciato a maggio obbligazioni per emigrati senegalesi con l’obiettivo di finanziare la realizzazione di nuovi alloggi. La banca puntava a raccogliere 20 miliardi di franchi Cfa (circa 30,5 milioni di euro) e ha chiuso a giugno con una domanda superiore all’offerta. Le obbligazioni della diaspora hanno concrete prospettive di funzionare dove c’è la giusta combinazione di tre elementi nella popolazione emigrata: il controllo di una consistente massa di denaro, forti legami con il loro Paese di origine d’origine, uno spiccato nazionalismo. La presenze di questi elementi permette di mandare in secondo piano i fisiologici difetti di queste obbligazioni patriottiche: i tempi lunghi dei benefici per i Paesi che li emettono e i bassi interessi per i sottoscrittori. Il successo non è assicurato. Perchè l’emissione funzioni occorre che la proposta abbia una sua stabilità finanziacento ria, che ci sia un buon grado di sostegno internazionale alle politiche governative locali, che rating di credito siano positivi, che le caratteristiche delle obbligazioni siano allettanti e che la comunità degli emigrati sia sufficientemente ricca.

Nel caso dell’India, la possibilità di utilizzare esclusivamente il bacino di utenza degli indiani emigrati è stata associata a rimborsi e interessi in valuta locale e non in valute forti, sostenendo in questo senso l’interesse primario dei migranti che hanno forti interessi in patria e che in maggioranza preferiscono lasciare le proprie risorse primarie nel Paese d’origine. Complessivamente, l’emigrazione nell’area Asia-Pacifico, coinvolge, secondo i più recenti dati dell’Asia Development Bank, 87 milioni di individui, e le rimesse hanno un valore stimato nel 2014 di 223 miliardi di dollari, quasi il 40%. Va notato, che si tratta di un dato superiore di quasi dieci volte all’ammontare degli aiuti allo sviluppo distribuiti nell’intera regione, a dimostrazione di come molti Paesi non abbiano ancora attinto in modo consistente a risorse proprie, puntando anche sulle rimesse per finanziare la crescita economica e sociale. In molte realtà, infatti, mancano strumenti finanziari adeguati e le rimesse sono da questo punto di vista improduttive, risultando in un semplice trasferimento di denaro e utilizzate per il puro consumo.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: