domenica 27 gennaio 2019
Avevano raccolto 12 milioni di dollari in 90 minuti e promesso una rivoluzione della trasparenza nel finanziamento agli enti benefici. Ma in un anno si sono svalutati del 95% e sono naufragati
La beneficenza non si fa con le criptovalute
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Un anno fa, quando la pazza bolla dei bitcoin non era ancora esplosa, la storia dei ragazzi italiani che si erano inventati la criptovaluta della beneficenza e avevano raccolto 12 milioni di dollari nel giro di un’ora e mezza sembrava l’inizio di una bella avventura imprenditoriale. Per qualche giorno ne avevano parlato giornali e tv e la prestigiosa Università Bocconi ha invitato i due imprenditori, Francesco Nazari Fusetti e Domenico Gravagno, a incontrare gli studenti per spiegare loro come si organizza una Ico, cioè la vendita di nuove criptovalute, e in che modo la loro creatura, l’aidcoin, avrebbe rivoluzionato la trasparenza nel mondo della filantropia.

L’aidcoin doveva funzionare così: sfruttando il funzionamento della blockchain, la potente tecnologia di verifica alla base delle criptovalute, questa moneta virtuale dava a chi faceva una donazione la possibilità di tracciare passo per passo il denaro dato in beneficenza. Meglio usare il passato, quando si parla degli aidcoin, perché questa criptovaluta che con la sua Ico era stata scambiata dagli acquirenti con 14.300 ethereum (criptovalute di successo che allora valevano, appunto, circa 12 milioni di dollari) è rimasta poco più che un’idea.

Nel primo anno gli aidcoin non li ha usati praticamente nessun filantropo. Delle otto campagne benefiche lanciate nel primo anno della criptovaluta, due non hanno ricevuto nulla e quattro, compresa una organizzata dal Wwf, hanno incassato aidcoin per un valore inferiore ai 100 dollari. Delle altre due campagne, una dedicata alle popolazioni colpite dalle inondazioni in Giappone e un’altra per Alice for Children, organizzazione che aiuta i bambini in Kenya, si potrebbe dire che sono andate anche bene: la prima ha raccolto un milione di aidcoin, la seconda 315mila. Solo che i donatori sono stati in un caso gli stessi creatori dell’aidcoin e in un altro un imprenditore delle criptovalute, Marco Streng. Insomma: il mondo della filantropia è andato avanti come se i bitcoin non esistessero.

C’è anche da dire che la promessa rivoluzione della trasparenza non si è proprio vista. Gli aidcoin donati per la campagna africana sono stati rapidamente convertiti in dollari veri per acquistare un generatore di corrente e la prova di questo utilizzo è una ricevuta pubblicata sul sito di Aidchain (un sistema di verifica, questo, che si può applicare benissimo al “vecchio” denaro reale).

Le criptovalute donate lo scorso luglio per il Giappone sono invece rimaste inutilizzate, e nel frattempo il loro valore reale è crollato da circa 100mila a poco più di 30mila dollari. L’aidcoin si è infatti svalutato paurosamente nel suo primo anno di vita. Ha debuttato sul mercato che valeva 73 centesimi di dollaro, ora è quotato 3 centesimi (ed è pure in ripresa, perché un mese fa valeva 2 cents). Tecnicamente è un -95%.

È ovvio che anche le criptovalute per la beneficenza hanno pagato la crisi dei bitcoin, ora quotati 3.500 dollari, cioè pochissimo rispetto ai 20mila dollari sfiorati nel dicembre del 2017. Però anche rispetto agli ethereum con cui sono stati scambiati inizialmente, gli aidcoin sono stati un pessimo affare: in questo caso la svalutazione è del 62%. Queste cadute spiegano buona parte dell’insuccesso dell’aidcoin.

Lo si poteva sospettare dall’inizio: appoggiate sul nulla se non sulle mosse dei trader e prive di una Banca centrale e di un’economia reale di riferimento, le criptovalute hanno un valore reale prossimo allo zero. Se per qualche azienda ricca può essere interessante farci degli esperimenti, chi si deve occupare di beneficenza e quindi non può sprecare nulla di quanto riceve in dono dovrebbe starne lontano.

Difatti i creatori degli aidcoin hanno pensato una nuova soluzione per salvare la baracca. Lo scorso ottobre hanno “integrato” nel sistema una criptovaluta “stabile”, chiamata dai e creata da un’organizzazione che si chiama MakerDao. Il dai è stabile è vale sempre circa 1 dollaro perché a differenza delle criptovalute tradizionali è coperto da un complicato sistema di garanzie. Certo, il fatto che le garanzie siano rappresentate da altre criptovalute, gli ethereum, e che questa Maker Dao si proponga come garante di ultima istanza rende il dai una specie di caricatura di una moneta tradizionale, però garantita non da una Banca centrale, ma da una società privata di cui non è dato sapere nulla. Ci vuole molta spregiudicatezza per affidarsi a un sistema del genere nel fare di beneficenza.

I filantropi, che non sono ingenui, stanno riservando al dai la stessa attenzione riservata all’aidcoin: nulla. C’è stata una sola campagna, a favore di Cool Earth, ong che finanziare le comunità indigene che si oppongono alla deforestazione in Amazzonia. L’intera campagna, da 20mila dollari, è stata coperta da CharityStars, cioè l’organizzazione di Nazari Fusetti che raccoglie fondi per beneficenza con l’aiuto delle star trattenendo per coprire le spese in media il 20%dell’ammontare raccolto. In questo caso l’incasso è derivato dalla vendita di magliette firmate da Vivienne Westwood. Dei 20mila dollari raccolti e convertiti in dai, 16.183 sono andati alla comunità indigena Ashaninka (che presto, saggiamente, li ha trasformati in soldi veri) e 3.816 sono rimasti ad Charity Stars-AidChain, che li ha usati per comprare aidcoin e toglierli dal mercato.

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