lunedì 24 settembre 2012
L'Osservatorio Diversity Management della SDA Bocconi mostra che nel nostro Paese i lavoratori part-time sono penalizzati in termini di valutazione annuale, sviluppo di carriera e retribuzione. E quantifica il fenomeno.
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In Italia la flessibilità fa male a chi la usa. Una ricerca dell’Osservatorio sul Diversity Management della SDA Bocconi mostra che nelle imprese italiane la flessibilità non è solo utilizzata in modo rudimentale (ce n’è meno che nel resto d’Europa ed è sostanzialmente limitata alle forme del part-time e del telelavoro), ma finisce per penalizzare - in termini di valutazione della performance, sviluppo di carriera e retribuzione - i lavoratori che ne fanno uso.“Scegliere il part-time significa dimezzare la possibilità di ricevere, a fine anno, le più alte valutazioni (4 e 5 in una scala da 1 a 5), ridurre di sette volte la possibilità di fare una carriera davvero brillante (con due o più passaggi di livello in quattro anni) e guadagnare meno denaro con gli incentivi economici e i bonus non automatici”, sintetizza Renata Trinca Colonel, ricercatrice del team.L’Osservatorio sul Diversity Management ha condotto un grande studio pilota sulla totalità della popolazione aziendale (decine di migliaia di posizioni) di una grande impresa italiana capillarmente diffusa sul territorio, nel periodo 2007-2010. Gli impiegati con un contratto part-time - unica forma di flessibilità prevista in azienda - sono il 13,2%, in larga parte donne. I congedi personali retribuiti (un indicatore di flessibilità aziendale in senso lato) sono utilizzati più frequentemente dalle donne (23,5% contro il 18,7% degli uomini) e da chi già utilizza la flessibilità aziendale (26,7% di chi ha un contratto part-time contro il 20,2% dei full-time). Donne, lavoratori part-time e lavoratori con inquadramento più basso (9,1% degli impiegati, 6,7% dei quadri e 1,7% dei dirigenti) utilizzano più spesso, infine, anche i congedi concessi per disabilità propria o (soprattutto) altrui.Dalla rilevazione, che confronta i lavoratori con inquadramento full-time e quelli part-time, risulta che la valutazione di fine anno dei lavoratori part-time è inferiore a quella dei full-time in modo statisticamente significativo. Se la differenza media, in una scala che va da 1 (parzialmente inadeguato) a 5 (eccellente), può sembrare piccola (3,62 contro 3,84), essa si traduce comunque in una possibilità dimezzata di ricevere una delle due valutazioni più alte, ottenute dal 21,5% dei lavoratori full-time e dal 10,5% dei part-time.La penalizzazione è ancora più evidente in termini di passaggi di livello contrattuale: l’88,3% dei lavoratori part-time non ne ha registrato nessuno nei quattro anni considerati dalla ricerca, contro il 72,7% dei full-time. I fortunati che hanno fatto due o più salti di livello sono il 5,7% dei full-time e lo 0,8% di quelli part-time (la possibilità si riduce, in altri termini, di sette volte).Infine, pur non rendendo pubbliche le cifre, la ricerca evidenzia che anche gli incrementi salariali non legati ai passaggi di livello (ovvero incentivi economici e bonus non automatici) sono attribuiti di preferenza ai lavoratori full-time.Le tensioni tra lavoratori e impresa che si registrano, in Italia, in tema di flessibilità sono paradossali, perché il confronto internazionale indica che le aziende che incoraggiano un ruolo di maggiore responsabilità del dipendente anche nella gestione del proprio tempo riescono a creare condizioni favorevoli a un maggiore coinvolgimento delle persone.In Italia parlare di flessibilità oggi significa essenzialmente sconfinare nel tema della precarietà e nella conseguente insicurezza generata nel lavoratore. “La nostra ricerca dimostra che la flessibilità può essere un traino in grado di generare valore per l’individuo e per l’impresa, a patto che vengano superate alcune idee radicate e poco ‘flessibili’che relegano lo stesso concetto ad uno strumento di taglio dei costi”, sostiene Simona Cuomo, una delle due coordinatrici dell’Osservatorio Diversity Management. Flessibilità dunque come strumento per migliorare le performaces economiche e a livello sociale, come strumento per incidere positivamente sulla qualità della vita, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e dei cittadini.“Le cause del cattivo uso della flessibilità in Italia non possono essere fatte risalire né alla produttività, né ai costi organizzativi”, sostiene Adele Mapelli, l’altra coordinatrice dell’Osservatorio. “Restano invece i costi indiretti, non monetari, riassumibili nel maggior affaticamento che l’organizzazione deve subire ma che possono sicuramente essere assorbiti soprattutto se rapportati ai possibili benefici derivanti dalla job satisfaction dei lavoratori che usufruiscono di queste forme contrattuali”.“L’implementazione delle politiche di flessibilità spazio temporale si scontra con una cultura organizzativa e sociale che premia più il presenzialismo del raggiungimento effettivo dei risultati lavorativi. Il quadro culturale delle imprese italiane valorizza l’overtime, come simbolo di fedeltà all’organizzazione indipendentemente dalle performances. Di conseguenza, le tipologie di flessibilità adottate dall’impresa tendono ad essere svalutate culturalmente: o vengono proposte a cittadini organizzativi ritenuti poco performanti. Chi decide di adottarle per motivi legati alla conciliazione di aspetti della propria identità viene stigmatizzato come poco produttivo e quindi immediatamente escluso dai percorsi di sviluppo dell’impresa” conclude Cuomo.
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