mercoledì 24 aprile 2019
Le stime su lavoro e nuove professioni dell’Internet economy. Nel nostro Paese vale solo il 2% del Pil
Entro il 2020 dal digitale 2,3 milioni di posti
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Da qui all’anno prossimo ci sono oltre 2 milioni e 300mila nuovi posti di lavoro nel mondo per nuove professioni nell’ambito dell’Intelligenza artificiale, del machine learning, nella digital trasformation e nel controllo dei big data. Sono dati diffusi da Gartner, la multinazionale di Stamford, leader mondiale nella consulenza strategica nel campo della tecnologia dell’informazione.

«Se anche solo l’1%, di questo flusso economico (ed è comunque un’ipotesi al ribasso) – spiega il fondatore di Disclose, Luca Erba – la applicassimo al mercato italiano significa che ci sono oltre 2mila posti di potenziale lavoro». Sono le nuove professioni create dall’economia digitale e di cui l’Italia, nonostante i tanti sforzi fatti, è ancora carente. Basta pensare che l’Internet e- conomy tricolore contribuisce alla formazione del Pil nella misura di appena il 2%, circa 32 miliardi di euro – studio McKinsey – rispetto alla media europea del 4% con picchi del 7% in Paesi come Germania e il Nord Europa. Se raggiungessimo la media europea è come se avessimo ogni anno 3 leggi di Bilancio italiane, nuove risorse per creare l’occupazione del futuro. «L’unico modo per uscire da una situazione che vede il tasso di disoccupazione giovanile italiano al 32,6% il doppio della media in Europa – spiega Antonio Ragusa direttore del Rome Business School – è quello di riallineare l’offerta di lavoro alla domanda del mercato, riformando alla base il sistema dell’istruzione e della formazione».

È stato questo il focus della prima edizione del Rome Innovation Summit, organizzato dall’istituto di formazione manageriale più internazionale in Italia, ovvero con il più alto tasso di proiezione globale grazie a studenti provenienti da 150 Paesi e a partenariati con università presenti in 30 nazioni. Tanti i nomi delle big company che hanno partecipato: Enel X, Ibm, Vodafone, Ferrovie dello Stato, Giffoni, Disruptive HR sono solo alcune delle grandi realtà che, accanto a imprese di nuova generazione nel campo della finanza, delle tecnologie esponenziali, della sostenibilità e dei servizi, stanno puntando con determinazione sull’innovazione a tutto campo. Tutto questo nonostante il Pil europeo, paragonabile a quello degli Stati Uniti e poco più avanzato della Cina, riserva al digitale del settore Ict un contributo di appena l’1,7%, con l’Italia ferma al’1,2%, contro il 2,2% in Cina e il 3,4% negli Stati Uniti. E nonostante solo due aziende europee sono presenti nella top 30 mondiale delle organizzazioni leader nel digitale e l’Europa ospita solo il 10% degli 'unicorni digitali' del mondo (le startup che valgono più di un miliardo di dollari) rispetto al 54% negli Usa.

C’è bisogno allora di scommettere sulle nuove aziende e il venture capitalist, i capitali di rischio a cui si rivolgono le startup per finanziare il proprio business, partito nel 2013 nel nostro Paese è ancora in una fase embrionale anche se nel 2018 «sono stati investiti 200 milioni di euro - ci spiega Antonio Saccà, fondatore di Hephoestus Venture - solo che il grosso è concentrato in Lombardia che assorbe il 45% dei capitali mentre nel Lazio è appena l’11% e l’intero Mezzogiorno arriva al 12%». Ne sono nate 1.470 di aziende innovative nelle nuove professioni legate all’intelligenza artificiale ma «molte falliscono, non riescono a superare lo scoglio dei 18 mesi». Come uscirne? «L’Italia su questi temi ricopre il 21 posto nel mondo - ricorda Ragusa - non siamo messi malissimo ma c’è bisogno di un ripensamento del sistema educativo sempre più legato al mondo del lavoro perché quello che accade da noi è uno scollamento tra quello che viene insegnato nelle Università e la reale domanda delle aziende ».

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