sabato 19 gennaio 2013
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​Da quando l’Avvocato allo stadio non siede al suo posto in tribuna, per tanti di noi – anche non juventini – non è più domenica. È stato un uomo olimpico Gianni Agnelli, un amante dello sport tutto. Si vantava, e a ragione, di «saper sciare come cammino» e amava il mare con lo stesso romanticismo di Hemingway, ma con lo spirito di competizione di un velista dell’America’s Cup. Fendeva le onde al timone di barche spartane nell’aspetto, ma poderose come la moto del Che, “truccate” ad arte, come quel gioiello al carbonio che era la sua prediletta: la Stealth. Nella lunga estate della giovinezza di scapolo impenitente (durata fino ai 40 anni) passava ore a nuotare e a tuffarsi dal trampolino naturale del terrazzo palermitano del suo compagno di nobili zingarate, il Principe Lanza di Trabia, patron del Palermo e grande cerimoniere del pionieristico calciomercato. Nel calcio l’Avvocato c’era entrato in fasce, portato per mano dal padre Edoardo al campo d corso Marsiglia dove allora si allenava la «squadra di famiglia», la Juventus. La tragica morte del padre già a 15 anni lo catapultò nel direttivo della società e a 26 ne divenne il presidente. Ma da monarca assoluto, a lui spettava il ruolo di “Mecenate”, quello del presidente operativo così lo affidò a un uomo di provata fiducia, l’ex capitano bianconero, in congedo, Giampiero Boniperti. Scelta napoleonicamente vincente. Decenni di vittorie, scudetti (arrivò fino al 26°), Coppe e di telefonate all’alba per chiedere a un Boniperti ancora assonnato: «Come sta la squadra?». Voleva sapere tutto dei suoi calciatori, ma pure degli altri, «anche di quelli che giocavano nel campionato eschimese», confidò una volta Claudio Gentile. Il calcio per lui era «una divina consolazione», quasi un amore. Quella con la “Vecchia Signora” è stata la storia di una grande passione, vissuta senza tradimenti di sorta con l’altra amante, la “Rossa” di Maranello, la Ferrari. Il compito di stargli vicino e di farla diventare la «macchina per eccellenza», lo diede al figlioccio Luca Cordero di Montezemolo. Era affascinato dal “genio” che alla Juve come alla Ferrari si presentò sotto il nome di “Michele”. Michael Schumacher, del quale ammirava la «freddezza omicida» con cui arrivava primo al traguardo. Michel Platini, il “10” con lode, preferito anche a Maradona che gli fu consigliato, invano, dal suo primo e forse unico idolo, Omar Sivori. Alla sua corte anche Platini venne elevato al rango de “Le Roi” e il suo sovrano supremo si vantava dell’affare fatto: «L’abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras». Meno costoso Platini di un quadro di Balthus a corredo della sua collezione di capolavori nella quale poi entrarono a far parte il «Pinturicchio» Del Piero, «Raffaello» Vialli, «Delacroix» Zidane. Ma a seconda delle opere in campo, Del Piero poteva assumere negativamente la maschera del beckettiano «Godot» e nell’attesa, insofferente, Roberto Baggio gli appariva come un «coniglio bagnato». Ironia di un Voltaire, cinismo di chi preferiva «un mascalzone intelligente a un mediocre onesto». Frase che ebbe un effetto boomerang quando alla Juve prese il potere la famelica “triade”, con Bettega e Giraudo orchestrati da Moggi, del quale pensava: «Avere uno stalliere in squadra è fondamentale perché solo lui sa come trattare con i ladri di cavalli». Forse si era sbagliato a metà, del resto fino alla fine l’Avvocato, amava ripetere alla sua corte: «Una cosa fatta bene può essere fatta meglio».
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