mercoledì 20 aprile 2016
Fino al 1969 si calcolava con il metodo contributivo, tornato con Dini nel 1995Risale al 1898 la nascita della Cassa che poi, nel periodo fascista, si trasformerà nell'Inps. Brodolini varò il retributivo, in vigore per 30 anni.
Da fine Ottocento il sogno degli italiani
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In principio è il contributivo. Nella storia del sistema pensionistico nel nostro Paese (le origini assolute vanno fatte risalire al cancelliere tedesco Otto von Bismarck) da fine Ottocento fino al 1969, infatti, il computo dell’assegno viene commisurato ai contributi versati nella vita lavorativa. È nella riforma del 1969, che porta il nome del ministro socialista Giacomo Brodolini, che viene abbandonata ogni forma di capitalizzazione a favore del sistema retributivo, che lega l’assegno allo stipendio percepito negli ultimi anni lavorativi. Sullo sfondo i grandi cambiamenti nelle dinamiche economiche, con l’inflazione galoppante e le rivendicazioni salariali che caratterizzano gli anni a cavallo tra Sessanta e Settanta. Anni di spesa pubblica, di 'salari come variabile indipendente'. Quindi di scelte politiche che contrastano con gli allarmi lanciati già a quel tempo dagli economisti sulla sostenibilità del sistema. Oltre che di sacrosante attenzioni alle fasce più disagiate e ai lavori più usuranti, con l’istituzione, nella stessa legge, delle pensioni sociali e di anzianità (con 35 anni, pur senza aver raggiunto l’età). Nascono anche gli ammortiz- zatori sociali (Cassa integrazione guadagni). Alla fine del secolo precedente - agli albori del primo industrialismo - si deve il riconoscimento statale del diritto dei lavoratori a una prosecuzione della retribuzione anche alla fine della vita lavorativa. Dal 1898 la previdenza sociale inizia a muovere i primi passi con la fondazione della 'Cassa naziodella di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai'. È l’embrione della futura Inps. Dopo vent’anni, nel 1919, la cassa conta 70mila iscritti e 20mila pensionati. In quello stesso anno l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori. Con il fascismo, nel 1933, la cassa assume l’attuale nome di Istituto nazionale previdenza sociale. E sempre sotto il regime, nel 1939, vengono istituite le assicurazioni contro la disoccupazione, contro la tubercolosi e per gli assegni familiari. L’età per la pensione di vecchiaia viene abbassata a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. Viene istituita la pensione di reversibilità in caso di morte del coniuge. Nel dopoguerra nascono dinale verse casse autonome. Ma il sistema va avanti fino a quando i nodi cominciano a venire al pettine. Tocca alla riforma Dini, del 1995, tornare al sistema contributivo (ma mixato con quello retibutivo) e stabilire meccanismi di uscita flessibile per l’età tra 57 e 65 anni (per uomini e donne). Un anno dopo inizia la gestione separata per la platea sempre più vasta di lavoratori parasubordinati (collaboratori cooridnati e continuativi, i cosiddeti co.co.co, ormai superati dal Jobs Act). Con le leggi precedenti e successive - Amato del 1992 e Prodi del 1997 - si dà un quadro normativo ai fondi complementari e si inaspriscono gli oneri contributivi. Si arriva alla legge Maroni del 2004 in virtù della quale dal 2008 sarebbe dovuto entrare in vigore un innalzamento dell’età anagrafica da 57 a 60 anni. Il cosiddetto 'scalone' che, secondo i fautori avrebbe portato - a regime - a un risparmio di 9 miliardi l’anno. Nel 2007 è cancellato dal governo Prodi. Infine, nel 2011, l’ultimo atto (finora). È la riforma Fornero che estende il sistema contributivo a tutti, innalza ancora il limite di età, introduce fasce e incentivi a restare al lavoro, aumenta a 42 anni (41 per le donne) il requisito di anzianità.
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