sabato 21 luglio 2018
Ereditata nel 2004 un’azienda decotta, Marchionne l’ha trasformata in un gigante internazionale dove l’Italia conserva un posto di rilievo, anche se non più centrale
Sergio Marchionne e John Elkann

Sergio Marchionne e John Elkann

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Pochi hanno sentito parlare di Sergio Marchionne quando, il primo giugno del 2004, il Consiglio di amministrazione della Fiat lo nomina nuovo amministratore delegato del gruppo. Umberto Agnelli
è morto da pochi giorni, l'Ad Giuseppe Morchio si è dimesso dopo avere constatato che non sarebbe riuscito a farsi nominare anche presidente e la scelta di questo 52enne nato a Chieti ma trasferito in Canada all'inizio dell'adolescenza ha tutta l'aria di una mossa d'emergenza in un momento critico.

Marchionne, che è entrato nel Cda di Fiat un anno primo con l'inizio della presidenza di Luca Cordero di Montezemolo, ha un curriculum da manager di alto livello, ma non stellare: un ventennio da dirigente in società di packaging, imballaggi e chimica, quindi due anni alla guida di Sgs, società svizzera leader nella certificazione, ispezione e verifica dei prodotti in cui la Ifil degli Agnelli ha una partecipazione. Dovunque abbia lavorato, Marchionne è descritto come un ottimo manager capace di ottenere risultati. Ma nessuno può immaginare che questo dirigente non più giovane non solo salverà Fiat, ma la rivolterà completamente ridandole il suo ruolo tra i grandi gruppi automobilistici mondiali.

La Fiat del 2004 ha bisogno di essere salvata perché è un'azienda che ha una linea di prodotti debolissima
(l'auto del rilancio doveva essere la sfortunata Stilo, arrivata sul mercato un mese dopo l'attacco alle Torri gemelle), perde 2 milioni di euro al giorno e rischia che le banche creditrici ne prendano il controllo per
spezzettarla. È messa così male che General Motors, proprietaria del 20% delle azioni, sta facendo di tutto per evitare che gli Agnelli esercitino il loro diritto di cederle il restante 80% a un "equo" prezzo di mercato.
Strappare 2 miliardi di dollari a Gm in cambio della rinuncia a scaricarle Fiat è il primo capolavoro strategico di Marchionne. Anche agli uomini degli Agnelli (in particolare Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens) riesce un capolavoro minore, quello di evitare che con l'esercizio del convertendo le banche tolgano alla famiglia il controllo del gruppo. Risolte le questioni urgenti, Marchionne si trova a dovere disegnare il futuro dell'azienda. Dentro Fiat Group c'è un po' di tutto: le auto, che portano 20,5 dei 46,7 miliardi di euro di fatturato, ma anche i veicoli agricoli e per le costruzioni di Cnh e quelli commerciali di Iveco. E poi la componentistica di Magneti Marelli, Comau e Teskid.

Fiat Auto, il cuore del gruppo, con i marchi Fiat, Alfa Romeo e Lancia produce automobili soprattutto in Italia per venderle principalmente in Europa: sono italiani 71mila dei 160 mila dipendenti del gruppo ed è costruito in Italia il 68% degli 1,7 milioni di automobili prodotte nel 2004. Ma la divisione auto è anche quella che affonda i conti: ha chiuso con un rosso di 2 miliardi di euro, portando in negativo di 1,5 miliardi l'intero risultato di Fiat.

In una presentazione a Palazzo Chigi dell'agosto 2005, cioè un anno dopo avere preso il timone
del gruppo, Marchionne invita a non farsi illusioni. Le sei fabbriche italiane – Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano, Termini Imerese e la Sevel Val di Sangro – sono piene di inefficienze e hanno una capacità produttiva eccessiva rispetto alla situazione del mercato. Nell'ottica di una "ottimizzazione degli investimenti" e della "convergenza tra piattaforme", l'azienda costruirà all'estero – a Tychy, in Polonia – il modello su cui punta di più, la nuova 500. Per le fabbriche italiane si promettono significativi aggiornamenti, anche contrattuali, con l'obiettivo di garantire «la continuità dell'attività manifatturiera».
La cura Marchionne funziona. Nel 2005 la Fiat ritrova l'utile e nel 2007 l'azienda è in grado di proporre, per la prima volta da 5 anni, un dividendo agli azionisti. La ripresa del mercato europeo e il successo della 500, il modello simbolo della gestione Marchionne, consentono al manager di potersi preparare al suo secondo capolavoro, l'acquisto di Chrysler. Con questa operazione, avviata nel 2009 e completata nel 2014 a costi irrisori, Marchionne ha completamente trasformato la Fiat.

I cambiamenti formali, con la nascita di Fca, la separazione dell'attività dei veicoli commerciali, industriali e agricoli confluiti in Cnh e il trasferimento della sede legale in Olanda e quella fiscale nel Regno Unito, sono solo l'aspetto esteriore di questa trasformazione. Il cambiamento sostanziale consiste nella crescita dimensionale e lo spostamento del focus del gruppo dall'Italia al Nordamerica. Le immatricolazioni sono passate dagli 1,7 milioni del 2004 ai 4,7 milioni del 2017, il fatturato è salito da 46,7 a 111 miliardi di euro, la perdita di 1,5 miliardi è diventata un utile da 3,5 miliardi di euro (che dovrebbe salire fino a 5 miliardi quest'anno).

Nella Fiat di oggi l'Italia ha un ruolo significativo, ma non è centrale. Il cuore del gruppo è in Nordamerica, dove ottiene la maggior parte delle immatricolazioni (2,4 milioni), dei ricavi (66,1 miliardi) e dei margini (5,2 miliardi su 7). L'Italia, con le sue 558mila immatricolazioni del gruppo Fiat, è il principale mercato europeo di questo gigante internazionale. A livello produttivo, però, il nostro Paese resta centrale: è ancora la seconda "fabbrica" del gruppo, con 60mila dipendenti su 236mila (gli americani sono 66mila) e 914 manager su 2.364 (contro i 945 dirigenti statunitensi).


Dei sei stabilimenti inefficienti citati da Marchionne nel 2005, solo Termini Imerese è uscito dal gruppo, che una volta terminata la produzione della penultima edizione della Lancia Y, nel 2012, lo ha abbandonato. Al suo posto è entrata Grugliasco, la fabbrica ex Bertone che Fca ha rilevato nel 2009 per farne la base della produzione Maserati.

Per i nostalgici della vecchia Fiat, l'azienda oggi è irriconoscibile. Lancia è stata ridotta ai minimi termini, lo stesso marchio Fiat, che un tempo copriva un'intera gamma di auto, dall'utilitaria alle ammiraglie, ora è limitato a Panda, 500 (nelle sue varianti) e Tipo. Solo Alfa Romeo, a livello di modelli, ha un'innegabile vitalità. La forza di Fca, oggi, è però altrove, nel marchio Jeep e nei pick-up Ram venduti in America. E sono i successi americani a garantire all'azienda le risorse per continuare a investire anche in Italia. Dove, secondo il bilancio 2017 consultato da Radiocor, la controllata Fca Italy ha chiuso l'anno con 672 milioni di euro di perdite.

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