giovedì 15 marzo 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
​Dopo dieci anni dalla morte di Marco Biagi, i tratti privati di quella tragedia sono raccolti nelle frasi pronunciate nei giorni scorsi da sua moglie Marina, in occasione di un incontro con degli studenti delle scuole superiori organizzato dalla Cisl di Bologna. «Vi porto un ricordo di Marco – è l’incipit di Marina – quando è stato ucciso era babbo di due ragazzi: Lorenzo aveva 13 anni, Francesco aveva appena iniziato Giurisprudenza, quindi aveva circa la vostra età». Poi è passata a descrivere la figura del marito: «Marco era un uomo libero che ha sempre detto quello che pensava. Non era legato in particolare ad una parte, si sentiva libero di dire quello che gli sembrava giusto. Ha avuto il coraggio di esporre le proprie idee. Proprio nei giorni in cui è stato ucciso – ha aggiunto – ricordo che Marco mi parlava di una cosa che riguarda i ragazzi. Era consapevole che la società si stava trasformando e che un lavoro per tutta la vita, lo stesso a tempo indeterminato, sarebbe stata una cosa praticamente impossibile, sarebbe arrivata tardi nella vita delle persone. Aveva in mente che bisogna difendere i lavori brevi. Purtroppo ci sarà questa precarietà, diceva Marco, però dobbiamo renderla una precarietà protetta, fare in modo che le persone che non hanno un lavoro protetto abbiano anche dei diritti, siano protette, che una persona non trovi solo un lavoro in nero».Mi auguro che queste parole siano arrivate fino al tavolo del negoziato sulla riforma del mercato del lavoro, al pari di una lectio magistralis impartita ai potenti leader di grandi organizzazioni, incapaci di accettare la sfida del cambiamento. Marco Biagi non era l’inventore della precarietà. Era un giurista colto, attento osservatore di quanto accadeva nel mondo, che aveva compreso come e quanto le trasformazioni dell’economia avrebbero influito sui rapporti di lavoro. E si era accostato al mondo dell’occupazione «grigia» (a cui i giuslavoristi tradizionali guardavano con sufficienza e ostilità come se si trattasse di una devianza rispetto a ciò che era sempre stato e tale doveva restare immutato nel tempo) con l’occhio di chi cerca delle soluzioni, propone delle regole in grado di rispondere alle esigenze delle imprese e di indicare delle tutele per i lavoratori. Oggi si parla di «potare» i cosiddetti contratti atipici (a termine, lavoro a chiamata, staff leasing, lavoro accessorio, a progetto, ecc.) come se fossero la causa della diffusa precarietà, mentre potrebbero servire – se correttamente applicati – a favorire l’occupazione in quanto rivolti a regolare esigenze specifiche difficilmente riconducibili a modelli contrattuali forzatamente standard (o come si dice adesso «prevalenti»). A sentire la Cgil e certi settori della sinistra i problemi dell’Italia non sarebbero più l’alto livello di disoccupazione giovanile, il numero elevato di persone che non studiano, non hanno un lavoro e non si preoccupano neppure di cercarlo; e neanche l’occupazione irregolare. È la precarietà il «male assoluto», come se bastasse scardinarne l’impianto, mediante una scorciatoia normativa, per poter risolvere anche la questione della disoccupazione. Si parla addirittura di «precariato» come se si trattasse di una classe sociale, di un vero e proprio <+corsivo_bandiera>status <+tondo_bandiera>che ha preso il posto di quel «proletariato» candidato ad essere protagonista della storia nelle fallaci ideologie del secolo scorso.Da tempo, Marco è diventato un eroe di tutti. Lunedì prossimo sarà commemorato, nella solennità della Camera dei deputati, da Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema e Maurizio Sacconi. Insieme alla ritrovata condivisione è in atto un tentativo di reinterpretare il suo pensiero come se si volesse dimostrare che il professore bolognese non si era mai sognato di patrocinare quelle soluzioni riguardanti i nodi difficili del mercato del lavoro che erano al centro delle polemiche in quel maledetto 2002. È pertanto comprensibile che la rivalutazione in senso «buonista» di Marco Biagi sia tanto più pressante oggi che è ricomparso nel dibattito lo spettro dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, suscitando, più o meno, la medesima conflittualità di dieci anni or sono, con gli stessi protagonisti di allora piazzati al solito posto. Alcuni hanno scoperto – chissà come? – che Marco era e sarebbe tuttora contrario ad una riforma dell’articolo 18. Chi scrive non avverte l’esigenza di interpretare, a distanza di un decennio, il pensiero di un indimenticabile amico, anche perché è stato proprio lui a lasciarcelo scritto in quell’«editorialino» che venne pubblicato postumo da <+corsivo_bandiera>Il Sole 24 ore <+tondo_bandiera>e che rimane il suo testamento. Basta dare ancora una volta la parola al ricordo della moglie: «Vado avanti nonostante il pericolo e le minacce perché sento che è mio dovere trovare delle soluzioni per proteggere i giovani». Grazie Marco!
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: