giovedì 15 marzo 2012
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​Davanti a un gruppo di studenti, la scorsa settimana, Marina Orlandi ha sentito il bisogno di ribadirlo, con parole tanto pacate quanto nette: Marco Biagi, suo marito, era strenuamente impegnato nella ricerca di maggiori tutele per i lavoratori più esposti ai cambiamenti. «Dire che voleva la precarietà è una bugia terribile», ha detto, rompendo un silenzio sempre praticato e custodito. Perché ancora oggi – a distanza di 10 anni da quel tragico 19 marzo 2002, in cui il giuslavorista fu trucidato, inerme, da un commando delle Brigate Rosse davanti al portone di casa, la bici appena appoggiata al muro – la memoria di Biagi è tanto attuale quanto non ancora pienamente condivisa. Fatica a sciogliersi un grumo ideologico che vede nei suoi studi, nelle sue proposte e infine nella legge che porta il suo nome, la difesa degli interessi dell’impresa ai danni di quelli dei lavoratori. Anziché il tentativo, basato sulla comparazione del diritto internazionale e sulla sperimentazione pragmatica, di promuovere una società attiva, combattere il lavoro nero e offrire maggiori opportunità d’impiego e tutele di base a tutti i lavoratori, grazie a quel nuovo Statuto dei lavori che proponeva fin dal 1998. Fu questa tragica distorsione del suo pensiero (sul quale si poteva e si può ovviamente esercitare una critica contenutistica) che ne fece allora un "nemico" di classe per molti, un facile obiettivo per terroristi alla ricerca di un simbolo da annientare nel tentativo di provocare un’anacronistica e irrealizzabile «rivoluzione proletaria». Una contraddizione tanto più stridente quanto più si consideri che molte delle intuizioni di Marco Biagi, offerte al dibattito sindacale e a beneficio del Paese sotto governi di diverso orientamento, sono malgrado tutto divenute patrimonio comune. E hanno prodotto – prima che la grande crisi spazzasse il Paese come uno tsunami – milioni di opportunità di lavoro e un tasso di disoccupazione arrivato nel 2007 al livello più basso registrato in Italia. Dati, questi, di solito omessi in partenza nel dibattito sulla flessibilità che, pure, si trasforma in precarietà per l’uso distorto di alcuni strumenti.Oggi che si è dovuto ricorrere a dei "tecnici" per il governo del Paese, il contributo di un Marco Biagi – cattolico socialista, capace di offrire il suo sapere e il suo metodo di lavoro al centrosinistra di Prodi, Treu e Rifondazione comunista, così come al centrodestra di Berlusconi, Maroni, An e Udc – sarebbe stato pertinente e prezioso. Ma c’è da scommettere che il "cambio di casacca" non sarebbe stato perdonato, come non lo fu allora, e sul suo nome si sarebbero esercitati veti potenti, come pure è accaduto per altri studiosi, "rei" di aver lavorato con lui al Libro bianco sul mercato del lavoro italiano, allora il «peggiore d’Europa».È significativo che nell’intervista andata in onda ieri all’interno di uno speciale Rai de "La storia siamo noi", Susanna Camusso abbia detto che «personalizzare è sempre un errore, anche se citare tante volte una persona non può fare un mandante. Io penso – ha ammesso il segretario generale – che la Cgil possa aver fatto errori di personalizzazione, possa aver confuso lo studioso con il governo, ma mai ha avuto in mente l’idea di avere davanti un nemico e non un interlocutore».Qualche anno fa, a una manifestazione, un gruppo di autonomi si mise a gridare: «Non pedala più/ e Biagi non pedala più». Tragicamente vero, per l’uomo, il marito di Marina, il padre di Lorenzo e Francesco. Ma falso, provvidenzialmente falso, per la sua opera di studioso e l’idea di un impegno a servizio del Paese, al di là degli schieramenti ideologici.
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