giovedì 24 giugno 2010
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«La cosa che mi ha fatto più male è vedere lavoratori contro lavoratori...». Chi è in piedi davanti a Silvio Berlusconi lo interroga ripetendo una sola parola: Pomigliano? Il premier annuisce. «Già Pomigliano. Hai visto, sempre lo stesso copione: un sindacato che prova a costruire, a dialogare, a immaginare soluzioni condivise e un altro sindacato che si muove per distruggere, per creare fratture». Non serve spiegare. Non serve ripetere che oggi il "colpevole" si chiama Fiom. Ma che oggi come ieri la Cgil «continua a muoversi come un partito politico». Oggi l’esigenza è un’altra e, nelle conversazioni più private, il premier chiede una svolta, un cambio di passo, una presa di coscienza collettiva. Perchè «siamo in una fase delicata, complessa e per uscirne c’è una strada maestra: cercare un’unità d’intenti. Con tenacia. Con ostinazione. Rendendoci tutti conto che altri Paesi della Ue l’hanno trovata e ora... Vedi – dice continuando a fissare il suo interlocutore – io voglio che la Fiat continui a produrre in Italia, voglio che l’Italia resti competitiva anche nel settore automobilistico. È il mio Paese... E allora se alla fine Marchionne decidesse di puntare sulla Polonia e di abbandonare Pomigliano sarebbe soltanto una clamorosa sconfitta. Per tutti. Ripeto: per tutti».Quei ragionamenti restano privati. Quello sfogo personale. Il premier non parla perché sa che farlo «sarebbe improduttivo e, forse, inopportuno». E allora anche ieri si alternano silenzi e riflessioni dove il capo del governo azzarda un parallelo che fa pensare: Pomigliano da un lato e il referendum sulla procreazione assistita del giugno 2005 dall’altro. «Se fossi intervenuto sarebbe diventato un referendum su di me. E così sarebbe stato oggi. Se avessi detto, e se dicessi, una parola, se avessi preso una posizione avrei rischiato di diventare io centrale e non l’accordo, non il futuro dei lavoratori...». Quella del silenzio è una scelta pensata fino in fondo e Berlusconi non esita a ripeterlo.«È giusto stare due passi indietro, è giusto evitare il rischio di essere elemento di ulteriore divisione», ripete il premier rendendosi perfettamente conto che l’interim del ministero dello Sviluppo economico avrebbe amplificato le sue eventuali parole. Parla allora il ministro del Lavoro Sacconi. Solo lui. Berlusconi guarda. Si informa. E solo lontano da telecamere e taccuini confida dubbi e speranze su Pomigliano. Parla di Marchionne come di un manager capace. Spende parole di assoluta stima. Ma non rinuncia a sottolineare una differenza: «Il Berlusconi imprenditore – dice parlando di se stesso e del suo passato – ha sempre amato il dialogo, si è sempre mosso parlando con le persone in modo diretto e ha sempre sfuggito posizioni di rottura».È, però, solo una parentesi. Il premier ora torna a ragionare di sindacato e a scandire il suo ennesimo atto d’accusa contro la Cgil. «Non si è mai mossa con spirito costruttivo. Non ha mai pensato davvero a risolvere i problemi, ma solo ad acuirli», ripete con il tono fermo. E ora? Berlusconi sospira ancora prima di scandire l’ennesimo messaggio carico di preoccupazione. «Ora vorrei che a Pomigliano tornasse la normalità. Ma vedo un rischio, una minaccia: un sindacato così schierato politicamente può solo porta solo a una progressiva deindustrializzazione del Paese. È così: bisogna riflettere davvero su quanto un sindacato di protesta possa frenare l’Italia nella sua corsa per diventare davvero un Paese moderno».Sono parole dure. È un’analisi impietosa e il premier non si ferma. E dopo aver sottolineato il «grande senso di responsabilità dei lavoratori, la voglia di partecipare, di contribuire a cambiare in meglio un’azienda che è anche loro» non nasconde la personale delusione per quel 36 per cento di no. «Mi chiedo se il rapporto tra lavoratori e imprenditori non vada ripensato, se non vadano archiviate per sempre le contrapposizioni ideologiche, sterili, strumentali. Perché così si perde. Così si torna a respirare un’aria che pensavo di non dover respirare più. Così si allontanano dall’Italia gli investitori stranieri. Così si "ruba" un’opportunità e un pezzo di futuro al nostro Paese».
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