sabato 23 agosto 2014
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Professor Jean Paul Fitoussi, docente di International Economics alla Luiss di Roma, in questi sei mesi l’economia ha rappresentato la spina più grande per Matteo Renzi. Perché? Perché a questo governo sono stati chiesti risultati immediati, che non si possono avere invece su questo terreno. L’economia non reagisce in modo immediato e lineare e sei mesi sono troppo pochi per poter giudicare. Detto questo, la mia valutazione sulle misure annunciate e poi applicate, come quella degli 80 euro in più in busta paga, è positiva. Però finora il provvedimento non ha avuto l’esito sperato, quello di rilanciare la domanda interna e la crescita... Un momento. Ciò che è stato fatto è il massimo di ciò che era possibile fare, nel quadro dei vincoli europei e degli equilibri politici italiani. L’obiettivo rimane quello di cambiare in profondità le attese della gente e il vostro premier ha dimostrato di saper utilizzare bene il poco spazio di manovra concesso dall’Ue. Non è così facile, politicamente, trovare un accordo su riforme strutturali di grande ampiezza. Esiste o no un caso Italia? Non esiste un caso Italia, esiste un caso Europa. La Germania non ha avuto una performance più grande di quella italiana, la Francia è a crescita zero, la disoccupazione aumenta dappertutto. È la stagnazione ad accomunare tutti questi Paesi. Se questo non è un problema europeo, allora io non capisco più nulla di economia... Sul versante continentale, che frutti ha dato l’impegno dell’Italia affinché la prossima Commissione Juncker si smarchi dalla linea dell’austerity? Il presidente del Consiglio ha saputo conquistarsi le simpatie di Angela Merkel, ma adesso servono fatti. C’è una battaglia comune da condurre a livello europeo. Il presidente francese François Hollande ha capito che serve un asse comune con l’Italia per chiedere a Bruxelles una svolta in materia di investimenti. Siamo in ritardo, ma meglio tardi che mai. Non c’è altra via d’uscita alla crisi europea che quella di cambiare le regole in modo tale da attuare politiche di crescita. Quanto ai 300 miliardi promessi da Juncker, il tempo degli annunci è finito. Ora serve l’attuazione di questi impegni. Draghi ha ricordato al nostro Paese che le riforme vanno fatte, evocando in caso di ritardi la necessità di una governance comune sovranazionale. Che ne pensa? È stato un errore. Renzi è uscito legittimato dal voto di fine maggio e il presidente della Bce non avrebbe dovuto dire all’Italia cosa fare, visto che la sovranità appartiene al popolo, non alle banche centrali. Più semplicemente, Roma farà quel che faranno le altre capitali europee, ma non esiste una ricetta magica che possa essere imposta dall’alto. Una maxi-manovra autunnale può avere un senso per rassicurare mercati e istituzioni internazionali? Una manovra pesante sarebbe un rischio gravissimo, perché ci farebbe precipitare ancora di più nel gorgo della deflazione, con effetti imprevedibili su famiglie e imprese. Non credo che il governo stia valutando un’ipotesi del genere. La situazione dei prezzi è già molto pericolosa e va combattuta non con le armi della politica monetaria della Bce, ma con interventi sulla spesa pubblica e sulle tasse. Per questo, tocca all’esecutivo intervenire. Perché l’operazione fiducia sui consumi non ha funzionato? Ripeto: serviranno tempi più lunghi per vedere gli effetti delle misure introdotte sinora, ma aver messo più soldi in busta paga non avrà prodotto miracoli ma ha per lo meno evitato all’Italia di crollare ancora più in basso. Renzi ha rimesso il vostro Paese, che era considerato periferico, al centro dell’Europa. Adesso dovrà fare di tutto per arginare nuove possibili cadute. Alto debito e stagnazione: la sindrome giapponese si è impadronita della nostra economia? Siamo già dentro uno scenario giapponese, ma c’è ancora una possibilità. Si metta fine alle chiacchiere e si agisca velocemente, a Bruxelles come a Roma.
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