giovedì 25 gennaio 2018
Draghi critica Mnuchin: "Tra le principali economie c'era un accordo per non parlare dei tassi di cambio". Intanto l'euro sale a 1,25 dollari. Tassi fermi e avanti con il Quantitative Easing.
Le mosse degli Usa sul dollaro preoccupano Francoforte
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La crescita si è fatta davvero robusta, in Europa, «ampia e addirittura migliore delle attese». Nonostante ciò, la Banca centrale europea non ritiene ancora opportuno modificare la propria linea d’azione. Tassi fermi, dunque: quello di rifinanziamento pronti contro termine resta a quota zero, mentre il tasso sui depositi, cioè quello che le banche pagano per parcheggiare i loro fondi a Francoforte, rimane negativo a -0,40%.

E avanti con la facilitazione monetaria. Anzi: il programma di acquisto titoli (Quantitative easing) da trenta miliardi al mese potrebbe anche proseguire oltre settembre. Per le pressioni inflazionistiche ancora tiepide, certo, ma anche – ed è questa, forse, la novità più interessante della conferenza stampa di Mario Draghi dopo la riunione del consiglio direttivo – per la volatilità dei cambi. A preoccupare la Bce, cioè, è un euro troppo forte e soprattutto, la vera causa delle asimmetrie, un dollaro che verrebbe artatamente indebolito con appositi messaggi dalle autorità americane.

Senza mai citarlo direttamente, Mario Draghi ha infatti criticato l’intervento del segretario Usa al Tesoro, Steve Mnuchin, il quale, precedendo l’arrivo di Danold Trump a Davos, ha sostenuto che un biglietto verde debole è una «buona cosa» per gli Stati Uniti.
Nel corso della conferenza stampa, il banchiere centrale ha fatto due volte riferimento a un accordo tra le principali economie globali, Stati Uniti inclusi, definito lo scorso ottobre, in cui si era stabilito di non sollevare l’argomento dei tassi di cambio. Una parte della recente volatilità sul mercato dei cambi, ha quindi aggiunto Draghi, è stata causata proprio «dall’uso di un certo linguaggio che non riflette quanto avevamo concordato».

Schermaglie da guerra valutaria, che si innesta su quella commerciale già in atto. La comunicazione portata avanti da Francoforte, ha tenuto a ribadire il governatore, non fa questo. Anche perché «il tasso di cambio non è un obiettivo dell’istituto, il cui mandato si rifà direttamente alla stabilità dei prezzi e quindi all’inflazione».

Proprio mentre Draghi parlava alla stampa, l’euro si è portato oltre quota 1,25 dollari, mentre il sismografo dei mercati azionari non ha registrato scosse particolari (Piazza Affari ha chiuso in lieve rialzo, +0,41%), le Borse hanno solo rallentando leggermente.

Diversi membri del consiglio direttivo, ha confermato Draghi, hanno espresso del resto preoccupazioni che vanno al di là del semplice tasso di cambio e che riguardano lo stato generale delle relazioni internazionali in questo momento: «Se tutto ciò dovesse portare a una stretta di politica monetaria indesiderata e che non è giustificata – ha spiegato – allora dovremmo ripensare alla nostra strategia».

Da una parte, infatti, «la prevalenza di una forte fase del ciclo potrebbe portare a ulteriori sorprese positive in termini di crescita nel breve termine», ha affermato Draghi. Dall’altra, «i rischi al ribasso continuano a essere legati principalmente a fattori globali, inclusi gli sviluppi sui mercati valutari». A marzo, in ogni caso, quando saranno aggiornate le previsioni trimestrali su crescita e prezzi, verrà nuovamente fatto il punto della situazione. Per ora, bocce ferme e sguardo vigile.

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