venerdì 29 settembre 2017
Questa legge arricchisce tutti: i diretti interessati e più in generale il nostro Paese
Barca: "Dalla legge sulla cittadinanza la spinta per una vera integrazione"
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«Un passo in avanti importante nel processo c’è stato, anche se non si può ancora dire lo stesso per i risultati ». Fabrizio Barca – economista, ex ministro della coesione territoriale e promotore della Strategia nazionale aree interne – sintetizza così la situazione italiana rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu. Ovviamente, nella sua analisi, Barca si concentra maggiormente sulle aree di cui si occupa da vicino: dalla povertà alle diseguaglianze, passando per la sfida di una vera e piena integrazione. Professore, quali sono i progressi principali compiuti dall’Italia?

Il primo grande obiettivo è stato centrato con l’incorporazione nelle strategie pubbliche italiane del concetto di sviluppo sostenibile: l’inserimento di nuovi indicatori nel Def accanto a quelli tradizionali. Ora ci vorrà ancora tempo affinché certi princìpi calino nei comportamenti di singoli ministeri ed enti, ma le alleanze fra organizzazioni rivelano una sensibilità crescente in tante persone (moltissimi giovani) che fa ben sperare per il futuro.

Che cosa bisognerebbe fare per proseguire in questo cammino virtuoso?

Ci sono due ambiti d’intervento: uno di sistema e l’altro territoriale. Il primo consiste nel mettere in pratica quelle indicazioni di politica economica contenute nel rapporto ASviS per contrastare le povertà. A livello territoriale non bisogna attendere le grandi decisioni, ma seguire l’esempio delle tante realtà dell’ASviS, che non si limitano a chiedere, bensì lavorano concretamente e 'dal basso' per cambiare le politiche e il senso comune al fine di raggiungere gli obiettivi del 2030.

Il presidente del Censis De Rita si è detto scet- tico sulla possibilità di trovare alternative valide ed efficaci al Pil...

Prendiamo sul serio la preoccupazione di De Rita, che ci mette in guarda dallo scegliere indicatori magari non corrispondenti alle necessità dei cittadini. Pure l’esperienza internazionale ci insegna che devono essere le persone a scegliere i parametri in base ai loro bisogni. E ci sono esempi concreti che testimoniano come ciò già avvenga in alcune politiche italiane. Nella Strategia per le aree interne si procede step by step, ovvero 30mila abitanti per 30mila abitanti, e l’indicatore dei risultati se lo scelgono i cittadini: dall’aumento delle competenze di matematica per i ragazzi all’obiettivo di ridurre i ricoveri impropri negli ospedali. È così, nei fatti, che si risponde all’avvertimento di De Rita.

Uno dei temi centrali è quello dell’integrazione, che ovviamente comprende anche il fenomeno migratorio. L’Italia a che punto è in questo processo?

Sicuramente non possiamo dirci soddisfatti, anche se le cose vanno meglio di quanto si può immaginare. Perché è vero che ci sono situazioni complesse in alcune periferie di grandi città, ma è altrettanto innegabile che ci sono tantissimi luoghi in cui l’integrazione è avvenuta. In molti Comuni il tasso di imprenditorialità (numero di imprenditori rapportato al numero di residenti) è più alto tra gli stranieri che tra gli italiani. Si possono citare alcuni casi concreti di aree interne: dalla Carnia (Friuli) alla Valle di Comino (Lazio). Certo, la strada per una piena integrazione resta ancora lunga.

Approvare il ddl sullo ius soli temperato/ius culturae aiuterebbe?

Ne sono convinto. Dopo aver dato scuola, sanità e tanto altro ancora, vogliamo dire a questi ragazzi e queste ragazze che non sono automaticamente cittadini italiani? Ma siamo matti? Questa legge arricchisce tutti: i diretti interessati e più in generale il nostro Paese. È una norma che va varata anche per non buttar via tutti gli investimenti effettuati di cura, di affetto e di capitale.

Lei sostiene che la questione dell’integrazione sia strettamente legata a quella delle disuguaglianze. Come entrano in relazione?

L’aumento delle disuguaglianze fa vedere con occhi sbagliati il fenomeno migratorio. Si attribuisce la colpa di un malessere crescente e di condizioni difficili a chi viene da fuori e non alle politiche sbagliate che hanno tagliato risorse sul welfare, impoverito la scuola e penalizzato altri settori fondamentali. Tali preoccupazioni vanno prese sul serio per essere smontate. Ecco perché, oltre agli 'ultimi', bisogna parlare ai 'penultimi', ammettere gli errori che sono stati commessi ai loro danni e provare a rimediare. Solo così i 'penultimi' potranno diventare preziosi alleati dell’integrazione.

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