giovedì 19 ottobre 2017
Le oltre 7mila neonate imprese italiane faticano a trovare investitori e a stabilizzarsi. Sulla mancanza di capitali pesa, tra l’altro, la scarsità di professionisti in grado di attirare finanziatori
Start up e analisti finanziari, matrimonio possibile
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Le start up italiane crescono in numero grazie a un quadro normativo favorevole e alla vivacità imprenditoriale del Paese, ma faticano a stabilizzarsi a causa, tra l’altro, della difficoltà di accedere al mercato dei capitali. La partecipazione degli investitori istituzionali allo sviluppo di questo segmento dell’economia incontra oggi diversi ostacoli. Pesa, inoltre, la scarsa analisi finanziaria che potrebbe facilitare la valutazione delle neonate imprese allargando la platea dei potenziali investitori a soggetti non specialisti (per esempio, banche e family office). Sono queste alcune delle evidenze che emergono da uno studio dell’Aiaf, Associazione italiana degli analisti e consulenti finanziari.

«Incentivi fiscali, sostegno al credito e deroghe civilistiche hanno disegnato un quadro oggettivamente favorevole alle nuove imprese - spiega Alberto Borgia, presidente dell’Aiaf -. In questa fase di ripresa economica e adozione del Piano nazionale Industria 4.0, le start up possono contribuire in misura importante all’innovazione del settore manifatturiero italiano. Una più diffusa conoscenza dell’analisi finanziaria è una condizione per accelerare l’accesso delle nuove imprese al mercato dei capitali. Nel nostro Paese, purtroppo, oltre a un costo della burocrazia, mancano una cultura finanziaria e professionisti che sappiano presentare piani efficaci e chiari per attrarre investitori. In Italia ci sono appena 1.100 analisti finanziari, in Europa, invece, sono 20mila. Eppure le start up potrebbero offrire lavoro».

Sono oltre 7mila le pmi innovative presenti in Italia nel 2016, con un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente e con oltre 35mila addetti, costituite in prevalenza da imprenditori con esperienze professionali nel settore Ict. Alla fine del 2016 le imprese registravano ricavi annui medi per 133mila euro, un Ebitda negativo del 25%, una capitalizzazione limitata con investimenti medi per 61mila euro e debiti finanziari per 54mila euro. Allo scadere dei cinque anni, il periodo che segna il termine della fase di start up, un’impresa su due sopravvive (un tasso più alto rispetto ad altri Paese europei) senza però raggiungere le dimensioni necessarie per avere un ruolo rilevante nel mercato di riferimento.

«Nel 2016 - continua Borgia - sono pervenuti alle start up italiane, in varie forme, finanziamenti complessivi per 180 milioni di euro contro oltre 1,4 miliardi per le start up francesi, queste ultime beneficiarie del grande dispositivo pubblico di aiuto all’innovazione gestito dalla società Oséo. Il numero di startup che hanno avuto accesso a investimenti in equity rappresenta una quota limitata del totale. Lo strumento più utilizzato per volume complessivo di erogato e per numero di start up beneficiarie è il Fondo di Garanzia per le pmi».

Un ostacolo alla partecipazione degli investitori istituzionali è certamente la difficoltà di valutarne il potenziale. Una corretta valutazione richiede l’utilizzo combinato di metodi qualitativi (benchmarking e comparazioni su potenziale nel mercato di riferimento, modello di crescita, vantaggi in tecnologia e brevetti, qualità del team, reputazione dei fondatori) e quantitativi (fondamentali di business). L’analisi finanziaria ha un ruolo importante nel processo di valutazione. L’adozione degli standard di analisi finanziaria, oggi ancora limitata tra i neo imprenditori, può allargare la platea dei potenziali investitori istituzionali a soggetti non specializzati.

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