giovedì 22 novembre 2012
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Per comprendere il valore e il potenziale dell’accordo sulla produttività – firmato ieri da tutte le parti sociali ad eccezione (per il momento) della Cgil – basterebbe visitare la "Fiera della contrattazione" che da tre anni la Cisl della Lombardia organizza a Sesto San Giovanni nel mese di maggio. Una "mostra" dove negli stand vengono presentate le migliori intese raggiunte nelle imprese della regione. Proprio quella contrattazione di secondo livello, più vicina alle aziende e ai lavoratori, che il patto definito ieri individua come la chiave di volta per accrescere la produttività del lavoro e rilanciare la crescita economica del Paese.Contratti aziendali stretti per difendere e incrementare l’occupazione e i salari, anzitutto. Ma sempre più anche per costruire un welfare integrativo. Soprattutto, lo strumento ideale per gestire in maniera flessibile e intelligente orari di lavoro, mansioni, formazione, conciliazione famiglia-lavoro. Fino al coinvolgimento di dipendenti e loro rappresentanti nella gestione delle aziende, arrivando a sperimentare forme innovative di partecipazione. È sul territorio, nella singola azienda, infatti, che si possono meglio individuare le risposte positive alle specifiche esigenze produttive e di tutela dei lavoratori. Trovando punti di sintesi tra interessi diversi ma convergenti, con equilibri e compensazioni che spesso appaiono assai più consistenti della difesa che il contratto nazionale, uniforme, "minimo comun denominatore" per definizione, riesce ad assicurare. Grazie anche a quel tanto di pragmatismo che è (o dovrebbe essere) lo strumento più importante nella cassetta degli attrezzi di un sindacalista. Capace perciò anche di derogare con intelligenza al formalismo del contratto nazionale – o perfino, a date condizioni, alla legge – quando in gioco ci siano la sopravvivenza dell’azienda e dei posti di lavoro oppure la possibilità di sostenere un investimento per crescere o, ancora, un adattamento particolare permette di incrementare la produttività e per ciò stesso creare risorse e benessere da distribuire. Delle decine di migliaia di contratti di secondo livello – che vengono stipulati ogni anno in Italia – la grandissima parte viene sottoscritta unitariamente da tutti i sindacati. Cgil e in diversi casi pure Fiom comprese. L’ennesimo no pronunciato ieri dal sindacato di Corso d’Italia, allora, è difficilmente comprensibile, se non inquadrandolo nelle difficoltà della confederazione di Susanna Camusso da un lato a stringere accordi auspice un governo che contesta nelle piazze e, dall’altro, a ridisegnare gli equilibri interni con la componente antagonista dei metalmeccanici, sempre più preoccupata di perdere il proprio potere d’interdizione e di essere marginalizzata. Sul piano tecnico, l’intesa firmata ieri presenta sicuramente alcuni profili di incertezza. Ad esempio riguardo alla struttura delle relazioni sindacali e al superamento degli automatismi salariali. Ambiguità frutto della faticosa ricerca del compromesso fra parti sindacali, e più ancora datoriali, tanto diverse tra loro. Così come resta sostanzialmente inevasa la questione degli investimenti da parte delle aziende stesse, nodo tutt’altro che secondario come testimoniano i dati Istat sulla caduta della produttività, pubblicati sempre ieri.Ciò che più conta di questo accordo, però, oltre alla defiscalizzazione di parte del salario integrativo, è il valore simbolico della scommessa sulle proprie capacità, sulla possibilità di trovare insieme – aziende e sindacati, artigiani e apprendisti, cooperative e dipendenti – le risorse organizzative e di progettazione per accrescere la produttività e la competitività delle imprese. Per uscire dalla crisi, costruendo un nuovo modello di sviluppo più condiviso.
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