martedì 20 gennaio 2015
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Stefano Zamagni fatica a credere a quello che ha letto in questi ultimi giorni sulla riforma delle banche popolari e del credito cooperativo. Se davvero il governo nel decreto legge Investment compact cancellerà l’articolo 30 del testo unico bancario — eliminando così il voto per socio, e non per azione, e il limite di quota dell’1% per azionista che sono le caratteristiche alla base della realtà del credito popolare e cooperativo — allora, avverte l’economista, «per il settore delle banche del territorio italiano suoneranno campane a morto».Da tempo la Banca centrale europea, la Banca d’Italia e anche la Commissione europea premono per una riforma dei sistemi di controllo “democratico” di queste banche. Perché è così critico sull’ipotesi su cui starebbe lavorando il governo?Per prima cosa forse non tutti si rendono conto che una banca cooperativa, a differenza di quel che avviene con le altre banche, una volta scomparsa non rinasce più. Quindi al governo chiedo questo: davvero vuole assumersi la responsabilità storica di cancellare una specie economica che funziona da 130 anni? Io non credo che voglia assumersi una responsabilità del genere, perché questo vorrebbe dire cadere nell’imperdonabile errore di eliminare la biodiversità del settore bancario. Ne verrebbe fuori anche un mondo del credito meno competitivo, perché, come ha ben ricordato Leonardo Becchetti, la competizione non è solo tra una pluralità di imprese, ma anche tra tipologie di imprese: se scompare la tipologia cooperativa è la competizione che ne risente.Il sistema di “una testa un voto” ostacola la partecipazione delle banche popolari alla fase di fusioni e aggregazioni in corso nel mondo bancario italiano. Possono restarne fuori?Ma io dico no allo statu quo, la razionalizzazione serve. Bisogna andare nella direzione che i nuovi tempi esigono, ma senza stravolgere la natura delle banche del territorio. Tenendo conto, nello stesso tempo, che le economie di scala nel settore bancario non sono così rilevanti come alcuni vorrebbero fare credere. Su questo la letteratura scientifica è concorde. E questo vale, in particolare, per l’Italia, dove le piccole e medie imprese sono la forza dell’economia nazionale e quindi avere banche che conoscono davvero il territorio e gli imprenditori è un fattore decisivo di sviluppo.Quindi chi si oppone alla riforma non è contrario, per capirci, alla razionalizzazione richiesta al mondo del credito cooperativo.No, e difatti ribadisco che c’è spazio per operazioni di razionalizzazione e fusione per aumentare l’efficienza del comparto. Però attenzione: l’efficienza non è l’unico obiettivo che un governo deve perseguire. Un governo democratico deve anche aumentare l’accumulazione di quello che definiamo capitale sociale, una ricchezza che non si può misurare solo in termini di “utili” nel bilancio economico. Come tutti i grandi economisti di qualsiasi scuola di pensiero hanno scritto, l’economicismo, inteso come ricerca dell’efficienza ad ogni costo, è sempre nemico della vera economia, perché la vera economia cerca efficienza ma anche altri principi, come in questo caso sono la coesione sociale e la lotta alle diseguaglianza. E il credito cooperativo è uno straordinario generatore di capitale sociale. Sembra emergere una proposta alternativa, che lascerebbe intatto il voto capitario delle banche, ma le costringerebbe ad entrare a fare parte di un gruppo bancario la cui logica sarebbe più “di mercato”. Può essere una buona via di mezzo?Sarebbe un modo indiretto e sottile di cancellare queste realtà. Ad esempio l’Iccrea, la holding delle Bcc, non avrebbe più una logica cooperativa se solo una parte minoritaria delle azioni rimanesse in mano al credito cooperativo, mentre il resto fosse controllato da privati con il potere di nomina dei consigli di amministrazione. Significherebbe tenere il voto capitario, ma non farlo contare più nulla.Ha in mente soluzioni alternative per spingere quel processo di aggregazione richiesto da Banca d’Italia e Bce?Si potrebbe per esempio fissare un obiettivo di razionalizzazione: oggi abbiamo circa 400 Bcc, potremmo chiedere di unirsi per scendere a 200 nel giro di 5-10 anni. Altrimenti potremmo chiedere di entrare a fare parte di gruppi più grandi, ma dove la maggioranza del capitale (almeno il 55%) sia nelle mani delle stesse Bcc. Un’altra strada ancora sarebbe chiedere di allargare i sistemi di copertura dei rischi, come il fondo di garanzia delle Bcc, che ha già dimostrato di funzionare bene. Sono tutte soluzioni che tutelerebbero la biodiversità del sistema bancario, che è un qualcosa da proteggere. Eliminarla sarebbe veramente deleterio e assurdo. Non è un caso che ovunque, a partire da Germania, Belgio e Svezia, stanno difendendo con tenacia le loro banche cooperative.
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