sabato 4 aprile 2020
Victor Massiah: dell’ultima crisi molte banche ne sono state la causa, in questa possono essere la soluzione Subito ossigeno a imprese e famiglie, poi finanziamo il rilancio
Victor Massiah consigliere delegato di Ubi Banca

Victor Massiah consigliere delegato di Ubi Banca

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Incontriamo il banchiere Victor Massiah di primo mattino. Su Skype, come impongono i tempi che corrono. Il consigliere delegato di Ubi Banca ha da poco presentato 'Rilancio Italia', programma integrato fino a 10 miliardi di euro per finanziare famiglie, imprese e Terzo settore colpiti dalla crisi che si è abbattuta in mezzo mondo. Unione di Banche Italiane, nata nel 2007 dalla fusione di Banche Popolari Unite e Banca Lombarda e Piemontese, è il terzo istituto di credito del Paese. Ha le sue radici fra Bergamo e Brescia, la quarta realtà manifatturiera d’Europa, quella che sta pagando il prezzo più alto in termini di vite e dolore, prim’ancora che economici. «Sentiamo fortissima questa vicinanza – dice Massiah –. L’impatto devastante su chi lavora e chi non può farlo, sulle famiglie che perdono i loro cari. L’impatto sulle persone, che sono la vera ricchezza di ogni comunità. Ma il dramma è ancora più vasto: lo vediamo da un osservatorio di banca nazionale in tante altre micro-territorialità che attraversano una congiuntura difficilissima. La nostra responsabilità, come quella di ogni leadership seria, è cercare di rimanere calmi per affrontare l’emergenza. E progettare la fase di ricostruzione. Non possiamo non pensare al futuro. Adesso, per limitare le ricadute sociali di questo choc.

Per questo, immagino, avete deciso di chiamare il vostro piano di interventi 'Rilancio Italia'. Rivolto a famiglie, imprese e – sullo stesso piano – Terzo settore.
Ubi Banca ha una quota di mercato del 10%, nel settore Non profit, quasi il doppio rispetto a quella che in altri settori abbiamo a livello nazionale. Crediamo profondamente e da sempre che il Terzo settore sia un fattore di coesione sociale e di resilienza che in questa fase va sostenuta con forza. Perché una delle poche realtà che riescono a iniettare nel sistema l’elemento di cui il Paese ha da tempo e soprattutto oggi più bisogno: la fiducia.

Il Paese da tempo ha bisogno anche di crescere e di crescere meglio...
La mancata crescita, a mio modo di vedere, deriva proprio da una mancanza di fiducia reciproca, a diversi livelli. È per questo, credo, che ci siamo riempiti di regole, burocrazia, controlli ridondanti: a causa dei comportamenti inadeguati di una minoranza, abbiamo sottoposto la maggioranza del Paese a uno stress da sovraregolamentazione, costruendo alla fine una società basata sulla sfiducia. In questo il Non profit ci insegna: si cresce solo cooperando nella fiducia. Ripartiamo da qui: dai medici e dagli infermieri che ci stanno dando una straordinaria testimonianza di cosa significa coniugare competenza, solidarietà e lavoro di squadra.

Questo choc, devastante, sembra differente dall’ultima crisi globale, quella iniziata nel 2008: una crisi finanziaria che ne ha provocato una bancaria e quindi dei debiti sovrani, scaricandosi infine sull’economia reale. Ora abbiamo davanti un crollo di domanda e offerta, uno choc esogeno che devasta da subito imprese e famiglie. Con quale impatto sul reddito complessivo?
Non abbiamo ancora tutti gli elementi per quantificarlo con precisione. Ma andando a spanne, possiamo dire che in questo momento un terzo del Paese è fermo. La Pa, che pesa direttamente e indirettamente per il 50% del Pil, è in funzione. La catena alimentare, quella farmaceutica e il loro indotto, insieme ai servizi bancari e finanziari – mi permetta qui di ringraziare anche i tanti nostri dipendenti che continuano a lavorare nelle filiali o in smart working – valgono un altro 20%. Il 30% è quindi 'spento'. E il blocco impatterà per il numero di mesi in cui resterà tale: tre mesi valgono il 7% del Pil, sei mesi il doppio. In termini assoluti, oltre 250 miliardi. Messa in sicurezza la salute, sono questi gli ordini di grandezza con cui dobbiamo confrontarci. E ragionare di conseguenza sulle condizioni per una ripartenza rapida.

Che ruolo hanno le banche?
Usando la metafora della circolazione sanguigna, dobbiamo anzitutto, in questa prima fase, dare tutto l’ossigeno che serve.

Vale a dire?
Alle famiglie moratorie sul pagamento dei finanziamenti personali quando si perde il lavoro, sospensione dei mutui, anticipi alla cassa in deroga. Per le imprese sospensione dei finanziamenti in essere, consolidamento dei debiti, incremento delle linee di cassa.

Nella seconda fase, terminata quella emergenziale sotto il profilo sanitario?

Creare i presupposti per ripartire nei prossimi mesi. Anticipare il 'dopo'. Per questo serve la nuova liquidità che mettiamo a disposizione. Con le garanzie statali si può ottenere un effetto leva imponente, che consentirà di avere energia soprattutto per le piccole e medie imprese attraverso finanziamenti a medio-lungo termine. Mi creda, aiuterà anche il contenimento del debito pubblico. In che modo? Gli Stati non hanno le competenze per selezionare le imprese da finanziare. Proprio qui entrano in gioco le banche, per valutare il merito di credito.

Il governo conta di erogare garanzie ulteriori, fino al 100% degli importi, per complessivi 200 miliardi di euro. Per tutte le imprese, anche le grandi, sfruttando tutti i margini consentiti ora dalla modifica delle norme Ue sugli aiuti di Stato. Basterà?
Poniamo allora che siano 200 miliardi: se il 10% delle imprese finanziate fallisce, il costo reale per lo Stato è di 20 miliardi. Tanti, vero: ma gli altri 180 finiranno nelle imprese che riusciranno a ripartire. E con una ripresa migliore ci sarà dunque meno spesa pubblica reale.

Voi ne mettete direttamente 10, di miliardi. Mezza manovra.

Possiamo farlo grazie alla solidità patrimoniale, cresciuta quest’anno di un punto (Cet1 al 12,3%, ndr) e all’evidenza che in questo momento siamo tra le prime tre banche italiane con la migliore qualità del credito grazie al rapporto tra crediti deteriorati lordi e il totale degli impieghi del 7,8% a fine 2019. La solidità è un elemento essenziale della nostra banca che quest’anno ha registrato una crescita del titolo del 17,3% dal giorno precedente i risultati fino alla presentazione del nostro piano industriale che si è tenuta il 17 febbraio di quest’anno.

Negli ultimi anni, in realtà, grazie agli interventi delle Banche centrali, la liquidità non è certo mancata. Sola la Bce ne ha iniettata per 10mila miliardi. Molti di questi soldi, però, non sono arrivati a imprese e famiglie. Dove si è inceppato il meccanismo e come evitare che riaccada?
Nella passata crisi le banche erano il problema, oggi possono essere la soluzione. Perché siamo in una situazione diversa. Allora, come si dice in gergo, 'il cavallo non beveva' (la liquidità finiva cioè in risparmio per le famiglie e accantonamenti per le imprese, non in consumi e investimenti, ndr). Ora l’economia italiana e pure quella europea hanno sete.

L’effetto del 'cavallo che non beve' è stata una crescita stentata per non dire stagnante da noi, poco brillante in buona parte d’Europa.
Il nostro primo problema strutturale è la demografia. Siamo un Paese vecchio che fa pochi figli. Abbiamo più pensionati che giovani. Dobbiamo allora liberare l’energia di questi ultimi. E per farlo dobbiamo sfrondare l’eccesso di regole di cui parlavamo prima: il nemico numero uno della crescita è la nostra società troppo complicata. Negli anni Ottanta in cui Guido Carli li denunciava, i 'lacci e laccioli' erano molti meno rispetto a oggi. Se sfruttassimo l’insegnamento che ci deriva da questa crisi, lo accennavamo prima, prendendo esempio da medici e infermieri, ricostruendo rapporti sociali e dunque regole sociale basati sulla fiducia anziché sulla sfiducia, potremmo passare dal 'pochi pagano tanto per tutti' al 'tutti pagano un po’ di meno'. Lo stesso discorso vale per l’Europa e i rapporti tra gli Stati nella Ue, che mi sembrano, al pari, vittime di una persecuzione regolatoria.

Da cui il dibattito di questi giorni sugli strumenti da utilizzare per uscire dalla crisi: Eurobond o Mes? La tempistica è importante, per cui se ci sono degli strumenti a disposizione con risorse sufficienti, meglio partire da queste. Per poi approdare, considerati i tempi richiesti, studiandolo bene, a uno strumento nuovo di condivisione del debito come gli Eurobond.

Alla fine si troverà un accordo?

Sì se torniamo ai valori fondanti e cioè allo spirito comunitario. Ma per farlo ci vuole onestà intellettuale e quindi che ciascuno faccia autocritica. L’Italia deve chiedersi perché è finita in un meccanismo in cui gli interessi sul debito pubblico ci schiacciano, quando da anni presentiamo addirittura un avanzo primario: evidentemente non cresciamo abbastanza e il nostro è un problema di bassa produttività e spesa pubblica male allocata. L’Olanda dovrebbe ragionare invece sul dumping fiscale e la Germania sul surplus della bilancia commerciale. Ma tutti, proprio tutti, vendiamo la stragrande maggioranza di ciò che produciamo, dalle macchine ai tulipani al made in Italy, nella più grande e ricca macro-area del mondo: la Ue. Tutti abbiamo dunque da guadagnarci se quest’area uscirà al più presto dall’inevitabile recessione. Per farlo, ci vuole soprattutto uno scatto di fiducia reciproca, a casa nostra e in Europa.

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