sabato 11 febbraio 2017
Come è stato possibile che il Tesoro italiano, non uno sprovveduto piccolo Comune di montagna, ma il dicastero economico dei super tecnici, abbia perso così tanti quattrini con la turbofinanza
Quando a scottarsi con i derivati è lo Stato
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La domanda che si pone Luca Piana in "La Voragine" (Mondadori, 168 pagine, 17 euro) punta dritta al bersaglio: com’è stato possibile che il Tesoro italiano – non uno sprovveduto piccolo Comune di montagna, ma il dicastero economico e finanziario dei super tecnici – abbia perso così tanti quattrini con i derivati? Per intendersi: nell’ultimo lustro, in media, Viale XX Settembre ha dovuto sborsare 4,7 miliardi all’anno (con una punta di 6,7 miliardi nel 2015) alle banche d’affari con le quali ha firmato questo tipo di contratti. Entro il 2021 ne serviranno altri ventiquattro, di miliardi. La traiettoria della risposta – il cuore del libro – è tutt’altro che lineare. E non si può esaurire, come vorrebbe la difesa d’ufficio, nell’inevitabile "rischio di mercato" connaturato a strumenti così incandescenti da provocare quasi sempre dolorose scottature.
Piana, firma economica del settimanale L’Espresso, cerca allora di sbrogliare la matassa prendendo le misure a quel «buco nei conti pubblici di cui nessuno parla». Anche perché – ed è la parte più interessante del lavoro – i governi italiani hanno sempre cercato di porre il segreto sui contratti firmati negli anni con le banche. Solo negli ultimi tempi iniziative parlamentari e giudiziarie, fra le quali quella dei magistrati contabili della Corte dei Conti, hanno permesso di "vedere" (parzialmente ) le carte che Piana ha invece con cura analizzato. Da parte sua, il Tesoro si è sempre difeso sostenendo che si tratta di perdite solo potenziali. Peccato che, proiezioni statistiche alla mano, la probabilità che le perdite potenziali si traducano in costi reali è di nove su dieci.
Il bubbone "derivati di Stato" è scoppiato a inizio 2012, quando l’allora esecutivo d’emergenza nazionale guidato da Mario Monti dovette staccare un maxi-assegno a Morgan Stanley per chiudere un’opzione swap. In questo tipo di operazioni, all’inizio, l’ente pubblico – nella fattispecie lo Stato, ma può essere anche una Regione o un piccolo Comune – riceve una sorta di prestito, un anticipo che tuttavia sarà costretto a pagare in futuro a carissimo prezzo. Una boccata d’ossigeno nel breve termine si traduce cioè in una polmonite alla distanza. A tal proposito, il capitolo «Da Milano a Buscemi» fornisce una casistica che in certi casi ha del parossistico sulle operazioni con i derivati fatte dagli enti locali, anche piccolissimi, in tutto lo Stivale. A partire dalla vicenda che ha interessato il comune di Albese con Cassano, 4mila abitanti, fra i due rami del lago di Como, che avrebbe potuto costare alle casse dell’amministrazione quasi mezzo milione di euro se il contratto – firmato per avere delle risorse immediate di qualche decina di migliaia di euro – dopo essere stato rinegoziato non fosse stato chiuso in anticipo con un esborso di 25mila. Il guaio è che nei primi anni 2000 il Tesoro si è comportato esattamente come il piccolo Comune lombardo: ha sottoscritto scientemente pericolosi derivati per fare cassa, per avere denaro fresco subito, assumendo però un rischio sproporzionato, rischio che sarebbe stato pagato oltre misura negli anni successivi.
Il problema pertanto, spiega bene Luca Piana, sono i tipi di contratti firmati. Il Tesoro ha sempre sostenuto che servivano per proteggere i conti pubblici da un aumento dei tassi d’interesse sul debito, vista la natura in origine "assicurativa" degli strumenti. Ma La Voragine dimostra che questo tipo di derivati – di natura assicurativa, cioè, come i contratti "cap" – non sono ahimè presenti nel portafoglio del Ministero. E non lo sono perché comprarli costa già all’atto della stipula: bisogna cioè scucire quattrini per pagare la controparte. Abbondano invece le operazioni di natura puramente speculativa, come le cosiddette opzioni "swaption": era proprio di questo genere uno dei contratti che obbligò Monti a scucire 3,1 miliardi di euro a Morgan Stanley.

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