lunedì 8 maggio 2017
Le quotazioni sono di nuovo in picchiata per l'incertezza sul rinnovo dell'intesa dell'Opec. Ma così si volatilizzano investimenti e l'inflazione diventa ingovernabile.
Pozzi petroliferi nei campi di Ponca City, in Oklahoma (Larry W. Smith, Ansa)

Pozzi petroliferi nei campi di Ponca City, in Oklahoma (Larry W. Smith, Ansa)

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Il prezzo del petrolio è di nuovo fuori controllo. L’accordo firmato lo scorso settembre dal cartello dell’Opec per togliere dal mercato 1,2 milioni di barili al giorno e rilanciare le quotazioni del barile ha funzionato per qualche mese: i contratti futures del Wti americano e del Brent europeo alla fine dell’anno passato si erano portati stabilmente i 50 dollari e per diverse settimane avevano superato anche i 55 dollari al barile. Sembravano diretti oltre quota 60, un prezzo alto rispetto alla norma dell’ultimo biennio ma comunque un livello equilibrato se si pensa che ancora all’inizio del 2015 la quotazione del barile stava sopra i 100 dollari.

La caduta delle quotazioni

Tre settimane fa è iniziato il tracollo. I timori che i paesi dell’Opec non riescano a rinnovare l’accordo, che scade a fine giugno, hanno dato la prima spinta lo scorso 19 aprile. Dopodiché una serie di nuove paure — dallo spettro di un rallentamento globale alla stretta creditizia in corso in Cina — accompagnata dalla risalita delle produzioni di shale oil negli Stati Uniti ha mandato le quotazioni ko: Brent e Wti sono precipitati sotto i 50 dollari al barile, rispettivamente a 49,4 e 46,5 dollari dopo la piccola risalita di questo venerdì. Parliamo di una caduta nell’ordine del 13% in tre settimane. L’agenzia finanziaria Bloomberg sottolineava venerdì che sui contratti futures del prossimo luglio sono ventuplicati gli acquisti di greggio a 39 dollari al barile. Gli investitori, insomma, si preparano a un tracollo.


Gli effetti del calo delle quotazioni

Sono buone notizie, se le si guarda per i loro effetti sui listini delle pompe di benzina, dove è possibile aspettarsi qualche risparmio (ma nell’ordine di una manciata di centesimi al litro, perché più del 60% del prezzo sono tasse), o sulle bolletta elettrica. Per l’economia nazionale e internazionale questa situazione è meno positiva. È vero che paesi come l’Italia sono importatori di petrolio, e quindi meno lo pagano più risparmiano, ma le quotazioni basse pesano sulle capacità di acquisto delle imprese e delle famiglie dei paesi produttori, e questo è un problema per un’economia molto orientata all’export come la nostra.

L’incertezza sul prezzo, poi, frena gli investimenti. Petrolio e il gas naturale (le cui quotazioni sono naturalmente legate a quelle del greggio) sono ancora la fonte di più del 50% dell’energia consumata nel mondo, infatti stiamo parlando di investimenti enormi: nel 2015, secondo gli ultimi dati dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), l’investimento mondiale sulla produzione di energia di idrocarburi è stato di 583 miliardi di dollari, il 25% in meno rispetto al 2014. Per il 2016 l’Aie si aspettava un calo di un altro 24%. Sono quasi 500 miliardi di dollari che restano nei bilanci delle multinazionali dell’energia (o delle banche che le avrebbero finanziate) invece di essere messi in circolazione. E senza investimenti, è noto, non c’è crescita.

Il problema è la volatilità

Il problema con le quotazioni del petrolio non riguarda solo il prezzo in sé, quanto la volatilità: finché non è chiaro, all’interno di un ragionevole intervallo, quanto potrà costare un barile in uno scenario di 2-3 anni per le aziende diventa difficile programmare investimenti significativi in nuove esplorazioni. Questa incertezza è un bel problema anche per la Banca centrale europea che ha il compito di mantenere l’inflazione «vicina ma non oltre il 2%». I soli prezzi dell’energia fanno il 9,5% dell’inflazione della zona euro, un peso che cresce si considera che occorre acquistare elettricità e carburante per produrre e distribuire quasi tutti i beni e i servizi.

Un prezzo dell’energia che si muove disordinatamente rende l’obiettivo di inflazione della Bce un bersaglio in movimento a forte oscillazione. Il tasso generale dei prezzi nella zona euro è schizzato dallo 0,6% dello scorso novembre fino al 2% di febbraio e poi all’1,9% di aprile sulla spinta di un rialzo della sola energia che nei primi quattro mesi dell’anno è stato di circa l’8% al mese. Senza il costo diretto dell’energia il tasso dei prezzi nella zona euro segna un rialzo molto più modesto: l’1,3% ad aprile. Se davvero nei prossimi mesi le quotazioni del barile dovessero scendere sotto i 40 dollari, Mario Draghi e i colleghi rischiano di trovarsi di nuovo a combattere contro lo spettro della deflazione. Con le quotazioni del greggio che, in definitiva, rendono impossibile lavorare in pace sulla politica monetaria.



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