martedì 17 settembre 2019
Se ne stimano quasi 20 milioni generati dalla "green economy" entro il 2030. Tra le professioni emergenti: l’energy manager, il data scientist, il cloud architect
Posti di lavoro dalla tutela ambientale
COMMENTA E CONDIVIDI

«Mi permetto di invitare i giovani italiani a considerare la tutela ambientale come un ambito lavorativo. Si stimano infatti quasi 20 milioni di nuovi posti di lavoro generati dalla green economy entro il 2030, tra questi l’energy manager, il data scientist, il cloud architect. E già oggi, per esempio, le energie rinnovabili danno lavoro a oltre 11 milioni di persone nel mondo. Nuove opportunità saranno sicuramente per cui vale la pena prendere in considerazione questa evoluzione e attrezzarsi di conseguenza. Non va poi dimenticato che la transizione energetica verso le energie rinnovabili sta modificando anche il mondo del lavoro generando la necessità di nuovi profili professionali e offrendo inedite opportunità di impiego». Lo sostiene Andrea Pietrini, managing partner di Yourgroup ed esperto di direzione aziendale.

A causa delle vacanze e del caldo agostano, è passata quasi inosservata la decisione della Business Roundtable, l’equivalente della Confindustria negli Stati Uniti, di modificare la definizione ufficiale della missione d’impresa che dovrebbe d’ora in poi porsi obiettivi sociali, abbandonando il principio della massimizzazione del profitto. In pratica i manager americani non devono o meglio dovrebbero più avere come unico obiettivo quello di aumentare il valore di Borsa per gli azionisti, ma quello di servire tutti gli “stakeholder” cioè persone e contesto che subiscono un impatto dalle decisioni del management e quindi lavoratori, consumatori, ambiente, società. Dietro questa decisione ci sono grandi aziende: JP Morgan Chase Apple, Bank of America, Blackrock, Boeing e AT&T, solo per citarne alcune. E in Italia com’è la situazione e quali ripercussione potrebbe portare?


«Partiamo dalla premessa che le differenze culturali ed economico-imprenditoriali tra Italia e Stati Uniti sono numerose, per cui il paragone parte sicuramente da piani diversi - spiega Pietrini -. Negli Usa la decisione di modificare la mission aziendale è presa con la stessa mentalità di quando si decide di pagare una polizza assicurativa, meglio provare a cambiare che trovarsi di fronte ai costi esorbitanti dei disastri ambientali. In Italia invece le scelte così importanti sono più sentite e sofferte, ma per questo, una volta prese, anche più durature e penetranti. Parlando degli amici d’oltre oceano, il ravvedimento della Business Roundtable rischia di rimanere solo sulla carta come è accaduto finora, nonostante i proclami che si sono succeduti negli ultimi 50 anni in tema di diritti sociali e ambientali, da quando è nata la teoria all’Università californiana di Stanford di sostituire Shareholder (azionisti) con Stakeholder (parti sociali toccate dalle decisioni d’impresa). Anche il recentissimo capitalismo digitale è stato un sistema predatore che ha pensato solo al profitto e a una facciata di tutela ambientale, nonostante la sua nascita e crescita in epoche quando il tema della tutela ambientale e sociale era già molto sentito».

In Italia, invece, la maggioranza dell’opinione pubblica ha interiorizzato la necessità di tutelare maggiormente l’ambiente e le persone. Quello che manca, oltre ad ancora un po’ di consapevolezza, soprattutto da parte degli imprenditori, sono gli strumenti e le professionalità per farlo. Mancano ancora infatti normative adeguate ai tempi di oggi e di conseguenza linee guida da seguire per gli imprenditori e i manager e mancano gli strumenti per mettere in pratica le decisioni. Oggi, per esempio, con la tecnologia che la fa da padrona nelle aziende, si dovrebbe pensare a gestire al meglio i consumi ad essa collegati, visto che si stima emetta nel mondo la stessa quantità di anidride carbonica del trasporto aereo. Tralascio, naturalmente, il tema dell’illegalità, che crea diseguaglianze tra imprenditori che seguono le regole e quelli che cercano scorciatoie creando concorrenza sleale.

«Guardando in una prospettiva di lungo raggio, il suggerimento alle aziende italiane è di investire in questi ambiti - conclude il manager -. A parte gli aspetti etici, che lascio a persone più esperte di me, i ritorni economici ci sono e sono interessanti. In un’ottica più immediata e intuitiva, senza andare troppo lontano, si pensi che in un’epoca dominata dai social network, ogni azione positiva fatta può portare ad un aumento della visibilità tra i consumatori e/o i clienti, che per questo possono decidere di aumentare i consumi e gli ordini. Inoltre, la buona reputazione tra i lavoratori può portare ad attirare i migliori talenti e quindi nuove idee e produttività migliore. Nel lungo termine invece la sostenibilità può essere una modalità per ripensare in maniera strategica i propri processi, anche in ottica “lean”, con un approccio volto all’identificazione e eliminazione degli sprechi, attraverso il miglioramento continuo del workflow, con lo scopo di creare valore per i clienti e accrescere il vantaggio competitivo. L’invito che faccio, pertanto, è di percorrere questa strada avvalendosi di manager preparati e con numerose esperienze sia in Italia sia all’estero. Manager con competenze trasversali che sappiano inserire progressivamente o potenziare se già attive, politiche sociali, di riduzione degli sprechi e di tutela ambientale».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: